domenica 14 ottobre 2012

esca viva (3)

Mio padre aveva la pistola, la notte a volte si perdeva nelle campagne e mia madre diceva stai tranquilla non è solo, c’è la sua squadra con lui. Qui ho sette/dodici anni – Mamma, la sua squadra sono quelli che mi vengono a prendere all’uscita della scuola e doposcuola con la macchina verde polizia oliva quando papà non può? 

Sì. Beh, sì, brave persone, mamma, possiamo stare tranquille. Papà li chiamava per cognome, proprio come a noi la maestra a scuola. Volevo sapere se avevo altre cose in comune con quelli lì. Mi mettevano nel sedile posteriore anche se io preferivo stare davanti e non mi appoggiavo mai allo schienale, stavo tesa dietro il sedile del guidatore e guardavo i suoi occhi dallo specchietto, con le mie braccia che gli sfioravano le spalle.

Anche tu vuoi bene al mio papà? Sì, tuo papà è buono. Devo metterti alla prova, Zamparo, ti confesso una cosa che ho fatto, se tu la dici a papà io dico a lui che non deve fidarsi di te. La vedi questa?, e tiravo fuori una biglia bellissima color cielo striata del bianco delle nuvole che non portano pioggia oppure una collanina di confetti rosa pallido – guarda, si chiama colliè – me l’ha dato una mia compagna in cambio di due ninnoli di cristallo del lampadario della sala da pranzo. Sono i ninnoli numero undici e dodici. Cooosa? Ninnoli, Zamparo, o forse tu li chiami brindoli, come mia nonna?

Bene, mia nonna. Mentre io mi agitavo al ventazzo di Trapani e decidevo di essere diventata la fidanzata di Mistretta, brigadierino american style anni settanta con la faccia di Maurizio Merli, perché veniva a prendermi in moto a scuola e alle compagne biondine veniva un travaso di bile e le suorine affaccendate per un momento sospendevano la gesticolazione ansiosa e si lisciavano le sopracciglia e pigolavano brigadiere non la vediamo mai in chiesa, se viene alla messa delle dieci, vedrà, sentirà anche il nostro coro – composto da quelle che noi chiamavamo “interne” perché vivevano lì ed erano più cresciutelle di noi, tredici o quattordici anni, nella mia classe ce n’erano due - la nonna con una specie di marito e una figlia zitella e un figlio scapolone e fimminaro viveva sempre a Palermo.

E tutti questi personaggi baldraccati mi tracimavano di vizietti, mi sollevavano in danze di giramondo, mi sciroccavano in panieri di coccole e zuccheri. Un paio di volte al mese andavamo a trovarla la nonna. Viveva in un suk, non nel senso di collocazione topografica, nel senso che casa loro era proprio un suk. 

Lunghi corridoi resi stretti dalla quantità abnorme di mobilio anticaglia stoffe alle pareti piatti di ottone perfino sopra le porte e nella stanze mobilucci scarpiere armadietti vetrinette, tutto stracolmo di roba usata stoffe recuperata da vecchi vestiti lumi con piumaggi multicolori incisi e trine di ceramica, passamanerie bronzate, fiocchi di seta, poltrone tipo bergère bottoni d’osso e savacci cuscini scarpe con struzzo e tutto fiorato quadrettato, a pois, ventagli per un occhio o per coppie, bigiotteria ingombrante e coloratissima e cappelli, una cascata di oggetti tunisini, pouf molli di cuoio umettati dell’afrore locale, caffettani cobalto o rossi con granite di pietruzze o ingigliati di fili d’oro appesi in giro per casa. 

Colori prevalenti: vinaccia, che non so esiste, sospetto l’abbia coniato lei e corrisponde a una via di mezzo tra color melanzana e bordeaux, forse oggi Harper’s Bazaar lo definirebbe color prugna, e appresso quasi tutte le tonalità di verde, da quello acqua dei suoi occhi a quello tenebroso delle fiaschette di mio nonno, e infine i viola, dal glicine all’episcopale. Tutti i suoi cappelli fin da quando era nata.

In camera da letto le coperte erano stratificate. Fiorata di base e plaid quadrettati in tinta, almeno uno per i piedi e uno per le spalle e, sopra i guanciali gonfissimi federe pastello e su quelle cuscini floreali broccati. Mia nonna dinoccolava assiepandosi in questo o quell’anfratto o indaffarandosi a cercare cose poiché non riusciva mai a trovarle nel momento in cui ne aveva bisogno. Le ritrovava dopo, le spostava sostenendo di metterle in evidenza per il prossimo bisogno ma era un rigurgito continuo, metastasi di disordine prive di ogni possibile controllo, degenerato – soggetto il disordine - soprattutto da quando mia madre s’era sposata e aveva lasciato la casa materna. 

Mia madre era disgustata, soffriva di un voltastomaco perenne di fronte alla marmellata di oggetti, papà ci rideva, io avrei voluto avere cento occhi e mille mani per non trascurare nulla di quell’adorabile brique-à-braque profumante di muffa e di sebo.
le briciole le raccoglie
chi non ha altre voglie
o ardirebbe ardire
e io che sono ardente
ho bisogno di fruire-capire-morire-tradire”,

mmmh… ”potrei mettere a posto il lampadario di mammam rubando dodici ninnolim della nonnam, la sua lumiera è somigliantem nella forma ma il colore è grigiom – cristallo fumé -, quella di mammam è invecem bella trasparentem”, mmmh…
Da questa tavolozza gitana, da questo sciame di oggetti arteriosclerotici, da questo regno di mago merlino e io ero anacleto, si passava al regno della grande mantide dormiente, alla trance che spezza gli abbagli dei colori smaniosi. Palermo-Trapani andata e ritorno. Per fortuna però mi si arrotava la fantasia, certi usignoli posati sulla placenta della luna mi tenevano compagnia, gli angeli si disponevano ad arco sul mare, monili schiumanti al sapore di zagara, un po’ scapigliati e biondissimi e campanule al collo da cui stillava un suono di clorofilla che plink plink plink, intimidiva il mare.
Come una proda sguazzata al centro di una secca metallica sono cresciuta. Mi restavano un mucchio di desideri scalzi nei pugni serrati, mi vedevo come una corteccia guardata al buio titillante lampi di resina e con il midollo brucato dai bagordi dell’immaginazione. Infine tornammo a Palermo definitivamente e ne fui felice ma un certo ramo di cattività mi era già cresciuto dentro.

rossella valentino  



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