sabato 13 febbraio 2010

(22) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato

CAPITOLO XXII
Ciccio Martirano
Calati!

Cicciuzzo Martirano non ne ha voluto manco a brodo di studiare. E’ sempre stato una testa nt’allaria, perso continuamente, fin da bambino, in un mondo tutto suo, impermeabile alla vita che si svolgeva intorno a lui. Non solo a scuola, ma pure a casa coi suoi. Non che avesse da scialare povero picciriddo. Attilio Martirano nel fiore della sua maturità aveva già sviluppato quei tratti del suo carattere che lo avrebbero poi reso insopportabile da vecchio.

Non ti lasciava dire una parola, parlava solo lui senza curarsi minimamente se chi aveva davanti lo stesse ad ascoltare. Con Ciccio faceva come aveva fatto suo padre con lui. Nessuna confidenza perché quelle erano cose di fimmine, qualche sculacciata ogni tanto e magari pure una timpuliata se proprio se la meritava. Le occasioni per imporre la sua autorità di padre erano però scarse. Il bambino era buono, magari troppo buono e tranquillo. La televisione e i giornaletti, questa era la sua giornata.

Niente pallone per strada con gli altri ragazzi, niente sigarette. Niente, solo che di studiare non se ne doveva parlare. Gli schiaffi e le urla non servivano, Ciccio si metteva a piangere, ma senza strepitare come facevano gli altri bambini della sua età. Pareva un cane bastonato, quello pareva, in un angolo della cucina a singhiozzare in silenzio. La signora Martirano se lo guardava questo figlio, strambo già nel colore rosso dei capelli e nell’azzurro degli occhi - cose mai viste nella sua famiglia - e si scioglieva come tutte le madri. Si metteva in mezzo quando il marito alzava le mani, quelle poche volte che succedeva.

Ma anche con lei Ciccio, pure se più affettuoso che con il padre, non si apriva neanche un po’. Così lei si era come rassegnata alla sussistenza; non gli doveva mancare niente a quel figlio, doveva essere sempre lindo e pulito come la sua casa. Ciccio apprezzava le attenzioni della mamma, ma se gli scappava un sorriso, ogni tanto, era assai. Questo almeno il tran tran degli anni della fanciullezza e dell’adolescenza fino alla scoperta dei giornaletti sotto il letto.
Da dove avesse preso quel modo romantico di essere quello che era, questo proprio rimane un mistero.

Ciccio sognava il principe azzurro o, forse, è più corretto dire che sognava il re azzurro. I Romeo alla Zeffirelli, per dire, gli sono sempre stati del tutto indifferenti. Quello che Ciccio sognava era, per dire, un Connery – Robin Hood di ritorno dalle crociate, così come l’aveva visto in un vecchio film alla televisione. E pure questo sognare particolare per il povero Ciccio è stato un’ulteriore complicazione nella sua già non semplice vita di omosessuale proletario della nostra città.

Non è che le occasioni gli mancassero. Anzi questa sua predilezione per quelli più grandi di lui gli ha sempre assicurato un’intensa vita sessuale. Ma si è detto, Ciccio è sempre stato un tipo romantico pure non avendo letto Colette o Emily Bronte. Per cui ha fatto presto a impratichirsi dell’ambiente per concludere che non faceva per lui. Si era messo ad aspettare l’occasione della vita. Che volete, Ciccio questa cosa l’ha decisa che non aveva neppure compiuto diciotto anni. Bisogna capirli i giovani!

No, non mi sono mai piaciute quelle cose. E ho tentato di farglielo capire. Lui ci restava male e non telefonava per qualche giorno. Io la soddisfazione di cedere non l’avevo data mai a nessuno e non chiamavo manco io. Però, presto ho cominciato a capire una cosa: che mi piaceva farlo contento. Anzi, che questa era la cosa che più mi rendeva contento, assecondarlo, permettergli quello che più lo faceva felice. Ma più ci pensavo a quella cosa, più ci restavo male. Bisogna capirmi. Quei pochi amici che mi ero fatto mi dicevano che non bisognava mai calare le braghe perché pure l’uomo più buono del mondo se ne approfitta. Che le cose troppo facili alla fine stancano presto. A me mi terrorizzava l’idea che lui potesse lasciarmi. Comunque, un grande casino in testa.

All’inizio non mi eccitavo neppure. Ma era bastato leggergli in faccia la delusione e mi sono sforzato di venirgli incontro.

E’ giovane Ciccio e basta poco: un po’ di buona volontà da parte sua e l’esperienza di Impallomeni e le cose, almeno all’apparenza, sembravano a posto. All’apparenza però, perché a lui vederlo vestito in quel modo non gli piaceva.
Il ragioniere non era uno che parlava. Per quanto Ciccio lo stuzzicasse gli strappava solamente qualche parola che poi doveva con pazienza ricucire insieme ad altre dette in altri momenti. Così, e non perché Ciccio non fosse bravo a cucire, ne veniva fuori una storia un po’ sconclusionata. Impallomeni non era sicuro di averlo sempre saputo di questa sua diciamo inclinazione. Ricordava qualche episodio e ricordava che si accorgeva di guardare i ragazzi un po’ troppo a lungo. A parte questo, trentanni sempre con la stessa donna, due figlie e lavoro. Lavorava solo lui a casa e le spese erano tante.

Perciò lo straordinario lo faceva sempre e più ce n’era e più ne faceva. Così durante la settimana lavorava tutto il giorno dalla mattina alla sera. Poi a casa con la moglie e poi con le due bambine. Sempre la stessa storia per quasi trentanni. Ciccio lo capiva quanto gli era costato raccontargli quelle cose così intime e quando un giorno ha parlato della sua prima volta, a lui gli è parso il momento più bello della loro storia. La signora Impallomeni era ammalata, anzi era in ospedale. Impallomeni faceva la stessa vita di sempre. All’uscita dall’ufficio non andava a casa, ma al Policlinico. Un viaggio con l’autobus di quasi un’ora, tanto che arrivava dalla moglie quasi alla fine dell’orario delle visite. Gli infermieri lo sapevano e lo facevano restare un poco di più degli altri parenti. Quando finiva pure la visita all’ospedale, voleva solo arrivare a casa e andare a dormire. Gli passava pure la fame. All’uscita c’era il capolinea del 108.

Quella sera è salito nell’autobus vuoto, si è seduto e si è addormentato quasi subito. Si è svegliato per una scossa senza sapere quanto tempo fosse passato per trovarsi accanto un ragazzo che lo guardava. Era cominciata così e ce n’era voluto di tempo prima che gli passasse la vergogna per quello che aveva fatto mentre la moglie stava in un letto di ospedale a morire sola come un cane.
Ciccio se l’era visto arrivare all’albergo Mozart quando ormai ad Impallomeni queste cose non gli facevano più ne’ caldo ne’ freddo. Era diventato uno dei tanti, marito e padre di giorno e lupo mannaro di notte.

Certamente che era uno schifo quella fetenzia di lavoro! Che non l’avevo capito subito? Mio padre aveva preso informazioni e non se ne doveva parlare. E’ magari è stato proprio questo che mi ha fatto decidere. Lavoro assai e soldi picca. E fosse stato solo quello. No, c’era pure che dovevo fare il ruffiano a quelli che ci venivano all’Hotel. Pure a quelli che in compagnia com’erano allungavano le mani con la scusa di dare la mancia. Quartararo pareva che non c’era, ma sapeva e vedeva tutto quello che succedeva. Guai a sgarrare. I clienti diceva. Alla faccia dei clienti! La maggior parte erano solo porci arraggiati. Venivano con qualche picciottello, facevano quello che dovevano fare e poi se ne scappavano con gli occhi calati se si accorgevano che li guardavo. Mi toccava puliziare le porcherie che lasciavano.

Meno male che non se ne vedevano tanti.
Non che ci avessi levato mano. Pure a me capitava di andarci con qualcuno. Lì però non volevo. Avevo l’impressione che Quartararo avrebbe spiato pure a me mentre facevo quelle cose e non mi piaceva, non volevo dargli questa soddisfazione. Ogni volta che passava, mi taliava e rideva. Che cazzo ci aveva da ridere quel vecchio bavoso? Però con me non ci ha provato. Mai, solo occhiate e mani addosso mai.

Che potevano essere, sei mesi? Sì, si avvicinavano le feste di Natale. Me lo ricordo che là dentro si moriva di freddo. Non ne ha riscaldamento l’albergo, solo qualche stufetta elettrica dentro le stanze che si accendeva quando arrivavano i clienti.
All’inizio, non mi ha fatto una grande impressione. Mi pareva uno come tanti. Veniva un paio di volte al mese, certe volte magari tre, e sempre con un picciotto diverso. Faceva quello che doveva fare e se ne andava, guardando pure lui quando gli pareva che ero distratto e non me ne accorgevo.

In quel mondo le voci girano. Così pure il ragioniere aveva saputo che, se ce ne fosse stato di bisogno, c’era un alberguccio ritirato e fuori mano dove tutti si facevano i fatti propri. E dato che a Impallomeni gli altri posti non gli garbizzavano per niente, perché o erano troppo in vista e c’era il rischio di incontrare chi non volevi incontrare, o troppo appartati e c’era il rischio di finire male, alla fine si era deciso e c’era andato pure lui all’albergo Mozart.

Quello che gli avevano detto era vero, tutti si facevano i fatti propri. Non chiedevano i documenti e il prezzo della camera si poteva fare, anche con la sua pensione. Solo il padrone non gli piaceva. Non è che avesse fatto o detto chissà che cosa. Questo no, ma così senza una ragione non lo poteva vedere. Magari era perché sorrideva sempre che pareva un cretino. Però gli anni che aveva gli dicevano che quello fissa proprio non c’era e che c’era da trattarlo con la canna, senza dargli troppa confidenza. E c’era pure un picciottello. Poi, aveva saputo che faceva il cameriere dell’hotel e che si chiamava Ciccio. E guarda caso Ciccio, invece, gli piaceva. No per quelle cose, almeno all’inizio manco ci pensava. No, gli piaceva perché era strano. Difficile dire in che senso strano. Ciccio aveva tutte le cose a posto, non era ne’ sciancato, ne’ strabico, però era rosso di capelli e questa cosa gli faceva impressione. Non come una cosa che ti tiene a distanza. Al contrario i capelli rossi di Ciccio, fin dal primo momento, erano stati come una calamita per le sue mani. Gli sarebbe piaciuto carezzarglieli, ma si tratteneva. Lì nessuno dava troppa confidenza a nessuno. Gli occhi poi! Ciccio aveva due occhi azzurri e grandi che parevano quelli di un picciriddo piccolo.

Ci ha messo due mesi per decidersi a fargli una carezza con la scusa di dargli la mancia. Niente di che, solo una piccola pacca sulla testa e un pizzicotto alla guancia come farebbe un padre con il figlio.
Il picciotto non ha fatto la faccia cattiva, anzi, ma - non lo poteva dire con sicurezza - gli era parso pure che avesse quasi sorriso. Ma lui era troppo affannato a scappare.

A me non mi pareva l’ora. Solo qualche taliatina prima di andarsene come gli altri, perciò quando si è deciso, oh Signore! Cosa vi devo dire? Non è successo niente, non ha fatto niente di che. Mi ha solo carezzato i capelli con la scusa, mica sono fesso io, di darmi la mancia. Io ero confuso e non sapevo che cosa fare. Gli avrei afferrato la mano e l’avrei costretto a carezzarmi ancora. Però in queste occasioni resto imbambolato come un cretino e l’unica cosa che sono riuscito a fare per fargli capire che mi piaceva è stato un sorriso che lui manco se ne è accorto, scantato com’era.
E’ cominciata così.

Vitangelo non era un santo. Ho venticinque anni, ma lo so pure io che nessuno è un santo su questa terra. I santi sono solo quelli delle immaginette che le monache ci davano all’asilo che manco paiono cristiani veri.
E c’aveva queste mania che a me non mi è mai piaciuta.
Così è successa la disgrazia e ora lui non c’è più e Quartararo se ne approfitta più di prima.

(Accì)

fine della 22^ puntata
vai alla puntata precedente
vai alla puntata successiva
vai alla 1^ puntata


ogni rifermento a fatti realmente accaduti
o a persone realmente esistite o esistenti
è puramente casuale...

le puntate del giallo ogni Mercoledì ed ogni Sabato su questo blog

Nessun commento: