mercoledì 3 febbraio 2010

(19) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato



CAPITOLO XIX

Lungo la Via Vittorio Emanuele

Certo che lo so? Non ce n’è stato uno che non ve l’abbia indicato come Corso Vittorio Emanuele. E’ verissimo, qui lo chiamano tutti così, avete ragione. Ritengo doveroso porre rimedio a quest’errore, dato che il ruolo che indegnamente occupo - sottolineo per vostra scelta - mi impone di essere scrupoloso nella toponomastica. Almeno in quella, vorreste dirmi? La battuta non è niente male e neppure tanto infondata, quindi l’incasso volentieri. Però, ora evitiamo di distrarci e torniamo a noi.

La strada stretta e dritta che ci troviamo davanti si chiama Via Vittorio Emanuele II e con questa precisazione il problema è chiuso.

E’ uno degli assi viari più antichi della città ed è stato per secoli la via più importante di Palermo, dove, per intenderci, si affollavano tutti i potenti locali coi loro palazzi pubblici o privati che fossero. Interseca un’altra strada, altrettanto antica e un tempo altrettanto prestigiosa, la Via Maqueda, che già conosciamo, formando una croce che divide la città nei suoi quattro antichi mandamenti. Oggi, nonostante qualche potente di recente fortuna sia tornato ad abitarvi, ristrutturando qua e là, la via dimostra ancora i segni dell’abbandono e del declino di quelli che una volta vi hanno dimorato.

E con questo è tutto, considerato che non è per questo motivo che siamo qui ora.

In effetti, qualcosa mi dice che su questa strada, finalmente, rivedremo il nostro commissario, di cui, da un po’ di tempo, abbiamo perso le tracce.

A fagiolo, è vero come si dice! Che vi avevo detto? Eccolo lì. Proprio a quella fermata dell’autobus, di fronte alla fontana.

Avviciniamoci, forza.

Stamattina non lo che cosa mi è preso. Non mi sperciava per niente alzarmi dal letto. E forse avrei fatto meglio a restare dov’ero, visto quello che è successo dopo. Mi ci dovrei abituare, così mi ha detto il dottore. Non è nulla, solo stress e con queste pastiglie riduciamo drasticamente il disagio. Non lo metto in dubbio. E’ andata proprio come ha detto lui – miracoli della farmacopea! – tutto è tornato in perfetto ordine. Ma, ad essere sinceri fino in fondo, visto che il medico in questione ha scelto, manco a farlo apposta, proprio quel termine così neutro e rassicurante, il disagio non se ne è andato per niente. Del resto, a parziale discolpa del mio fidato medico, neppure io riesco a definire quello che mi succede in altro modo, per quanto non risparmi di certo tempo e sforzi per farlo. Ieri ho anche cercato nel vocabolario e fra gli etimi che ho trovato quello che più si adatta al mio caso mi pare “difficoltà, imbarazzo (G. Della Casa,1526). Si tratta proprio di difficoltà a fare qualsiasi cosa e di imbarazzo di fronte ad eventi e persone. Per esperienza so che è molto meglio non stare a rimuginarci sopra per l’intera giornata. Così sono uscito di casa come tutte le mattine, senza comunque mettermi fretta.

Il disagio va e viene come vuole lui. Un momento fa mi godevo la giornata, contento di avere scelto la strada più lunga per andare in questura e ora devo starmene qui fermo in attesa che passi. E meno male che c’è questa fermata del bus che mi fornisce un alibi per sostare.

Un respiro profondo, due, tre e pensare ad altro. A cosa? Questo è il problema. Al lavoro? Magari è da lì che questo cazzo di disagio si è generato. A che? Al torcicollo che mi ritrovo puntuale ogni mattina, che per sbloccarmi ci vuole almeno mezza giornata? Lasciamo perdere che è meglio.

Maledetta l’abitudine di accenderlo questo stramaledetto telefonino! E’ un riflesso condizionato, che posso farci?

- Sì pronto, chi parla?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Sì commissario, sono il dottore Virgilio, si ricorda di me?

- Come no, dottore, come no. Proprio l’altro giorno ho cercato il suo numero d’ufficio, ma quando sono riuscito a trovarlo, lei era già andato via.

- Spero che non sia sia fatto una cattiva opinione di me, commissario. E’ stato un caso. Martedì, la badante di mia madre è dovuta andare via prima e non ho potuto fare a meno di anticipare l’uscita.

- Ma cosa va a pensare dottore. Mi dica.

- Volevo sapere se per caso potremmo incontrarci, ovviamente, quando lei ha un po’ di tempo da dedicarmi, commissario.

- Certo, le ho già detto che l’ho cercata proprio per questo, mi pare, no? Allora oggi è giovedì, che ne dice se ci vediamo da lei domani mattina, diciamo verso le nove, nove e mezza?

- Domani? Non vorrei sembrarle importuno ma, oggi, non le è possibile? Sa non sono ancora uscito di casa per cui se mi dice dove posso raggiungerla.

- Guardi, io sono in corso Vittorio Emanuele e sto camminando verso la Questura. A che ora può trovarsi alla caffetteria Rizzo. La conosce? E’ quel bar di fronte alla chiesa delle Anime decollate, poco prima dei Quattro Canti.

- Ah sì, certamente. Sarò lì fra mezzora al massimo.

- Va bene, guardi che io ci metterò molto meno di mezzora, quindi entri nel bar. L’aspetto per un caffè.

Almeno la telefonata a qualche cosa è servita. No, non si tratta del lavoro. Anche questa volta il disagio è passato. Mi devo decidere però. Questa storia mica può andare avanti così. Certo tanto al medico che gli costa dire, stia calmo, non si preoccupi, non è niente. Niente questa minchia, niente! Andiamo che è meglio!

Ancora? Cosa gli è preso al telefono stamattina?

- Pronto? Con chi parlo?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Lei non mi conosce commissario. Sono don Raffaele Cimò, l’economo dei frati della Loggia dell’incoronazione.

- Sì padre, piacere. Ho sentito parlare di lei e della sua congregazione per un caso di cui mi sto appunto occupando.

- Esattamente commissario. Esattamente. Sa, ci rendiamo conto dell’importanza del suo lavoro e delle sue esigenze investigative. Per questo, commissario, ci chiedevamo se non fosse il caso di scambiare due parole. Sa la gente ci mette poco a farsi idee sbagliate e abbiamo pensato che fosse, come si dice, più appropriato, ecco, evitarle l’incomodo di venirci a trovare.

- Certo capisco. Stavo per l’appunto pensando se non fosse il caso di chiamarla, ma vede sono stato così occupato in questi ultimi giorni. Ma, se lei mi dice che vuole scambiare due parole. Senz’altro! Vediamo, oggi è giovedì, che ne dice se ci vediamo da me domani mattina, diciamo verso le nove, nove e mezza?

- Domani? In Questura? Non vorrei sembrarle importuno ma oggi non può proprio? magari, visto che mi trovo dalle parti della Cattedrale, potrei raggiungerla dove a lei fa più comodo.

- Non c’è problema don Raffaele, si immagini. Guardi ho giusto un appuntamento fra le nove e mezza e le dieci, ce la fa a raggiungermi alla caffetteria Rizzo?

- Ah quel bar che c’è di fronte alla chiesa delle Anime decollate?

- Proprio quello, può esserci, diciamo fra le dieci e mezza e le le undici?

Ma chi cazzo era che dava a cani e porci il suo numero? Si chiede Cardascio. Non era neppure un cellulare di servizio. Da quando è tornato alla questura non l’ha più voluto tenere. Per cosa poi? Per contattare gli anonimi estensori delle lettere che gli passavano? Ora, però si sta facendo tardi e non è ancora arrivato all’incrocio con Via Roma. Cazzo che casino che c’è stamattina! non si riesce a camminare neppure a piedi e in più manca l’aria. Come fanno quei negozianti a starsene tutto il santo giorno davanti ai loro negozi a respirare questa schifezza? Guai a pensare a misure per ridurlo il traffico. Già il solo parlarne fa crollare le vendite di almeno il 50%. Sempre del 50%, che cosa stramba. Questa con le altre, comunque.

Vabbè, allora non è proprio giornata.

- Pronto? Con chi parlo?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Commissario, sono Franco Martirano, si ricorda?

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