lunedì 20 agosto 2012

tulli - tullipan

Mi sfugge il tropico mentre passo davanti al collegio dei salesiani. Ci butto dentro mio figlio, erigo il braccio per un saluto romano. Oggi non lo bacio, un pezzettino di pensiero molesto mi ha toccato e dice che è proprio figlio di suo padre. Borbotto sconcezze perché la mia bella giacca blu mi ha preso addosso una strana piega di occhio sul bavero e perché con un obolo di chiarezza capisco che la mia vita è degli altri.

Magari esagero se dico che la mia agenda di carta dipinta a mano con cateteri sbiaditi in azzurro sulla copertina e brandita come un ponte per le mie battaglie intercontinentali oggi assume la consistenza della carta crespatina dei bagni: serve a così poco che questo paragrafo non prevede altro.

Stamattina ho recuperato gli zigomi troppo sottili con una polvere color mazzarino e con una bella vampata gassosa di rabbia che a pensarci bene si è intrufolata come un rumore strozzato insospettabile che conosce bene la sua destinazione: scalfire la beata domus svagata nell’interspazio tra il sonno sazio e il dirupo giornaliero verso il quale ci si cala con resistenti fili di nylon.

Prevedo introduzioni di spiriti molesti, di zanzare alla riscossa e di sette caffè tracannati in fretta nelle prossime tre ore.

I miei colleghi sono improduttivi, ci guardiamo un poco dilaniati dalla perplessità di un giorno già vissuto e ci battibecchiamo mentalmente, con un infimo ordine di domande che ci oblungano la testa e per le quali ognuno di noi strozzerebbe volentieri gli altri. In bocca abbiamo ancora briciole di parole dette ai nostri compagni proprio ieri sera, il fatto è che vogliamo impedire alle supposizioni (di questo si trattava ieri sera, di parole di cera) di andare a vivere da un’altra parte. Forse tutti preferiamo il basso continuo lagnoso ma incantatore della ripetizione trasognata. Lascio l’ufficio dopo cinque ore con l’innocuità onirica del non mondo.

Adesso mi trovo davanti alla porta di casa. La toppa mi pare una vescicola, tutti i microbi trafficano vorticosi per farmi sentire su una mongolfiera trangugiata dal vento. Non so più tornare indietro. La serratura diventa una bocca calda salivante. Mi si infossano gli occhi, la mia pazienza ha un faccino smunto e l’alito maligno. Difatti vomito sul pianerottolo e poi svengo. Di soppiatto vedo un ultimo sorriso che è la crepa sul muro sopra e le chiavi cadendo fanno uno schianticino da charleston. Tulli-tullipan.

Se fossi più giovane potrei perfino provare della tristezza, poi giocare a infilzarla o a dissimularla o a portarla davanti allo specchio – ché dolce fluttuare d’ombre ne verrebbe – invece non faccio che accoppiarmi con me stessa. Oggi vorrei proprio scrivere come la Rosselli, lei restituirebbe al vento con congedo di diamanti le fauci mordenti del suo ventre e una tesoreria di femminezze le slaccerebbe le vene. Piuttosto che un fradiciume spaiato dalla coscienza letteraria. Piuttosto che agognare buone tutte le forme d’amore e infine magari farsi coincidere brani vita opportunamente manovrati con ogni affetto possente o abbottonato o circolare o stuprante su cui si inciampa con buona condotta di vita. E considerare buone tutte le specie di amore. L’unico indizio di gioventù che mi è rimasto è l’ombelico che sbuca dai pantaloni a vita bassa. Uno spioncino vigliacco che si rivolge al passato in tempi non adatti. Potrei provare tristezza invece considero buone tutte le forme d’amore.

Mio figlio torna da scuola. Parla da solo dentro l’ascensore, bisbiglia forte. La tromba delle scale assuefatta alle scene da pianerottolo mi rimanda in dilazione la sua voce, sono una bomba, sono una bomba. Esce folletto dalla cabina e mi restituisce il saluto romano.

Vado in cucina a friggere la cotoletta per lui, per un attimo sono tranquilla. Rimango scondita a chiedermi cos’è il coraggio e a dissanguarmi una sigaretta da ultimo paragrafo. Il mio spazio mi detesta, ci penso per bene, per secoli. Il manico della padellina decentrata intanto diventa incandescente, l’odore acre di gomma bruciata mi dispensa dal clima agheggiato di questa intercapedine, m’agguanta così la nausea e mi sbriciola in una corrente di pazienza. Difatti svengo, la padella cadendo fa uno schianticino da charleston. Tulli-tullipan.

rossella valentino

1 commento:

Oscuria ha detto...

Rosetta sei mitica...come sempre! Ma che dire,..!!!???!!!..
da grande voglio fare il tuo Editore...Pippo scusa,,,