Una delle mie più grandi pene è un anello antico che indosso sempre. Sovente ingoio il ricordo tabernacolare di mia nonna paterna puttana con la quale litigavo perché spiava e faceva spiare dai suoi numerosi conoscenti balneari e litoranei i miei amoreggiamenti adolescenziali.
Mia nonna è morta di ictus all’età di settantatré anni. Suo figlio maggiore – il più scozzese dei miei zii - durante crapula post esequiale
mi fece dono dell’anello della grande-mère adapté à son moyen
grand-doigt. La prima volta che lo indossai deposi le mani
autocarezzanti alla maniera della nostra gioconda domestica e riflessami allo specchio la piansi un’unica volta, finalmente liberandomi.
La nonna era una doppia vedova vigorosa e verbosa, sempre sbocconcellante mollichine domenicali del dopopranzo. Una gran troia era
stata coi suoi figli maschi perché morto di broncodepressite loro padre
elegante e dissolubile, aveva sposato e tenuto in casa un nero
quadrupede baffuto nullafacente e linofilo, in recente liquame di vedovanza.
Egli si era riprodotto durante il precedente matrimonio in quattro esemplari di satanassi spolpati, brutti e pecorini. Era già stata troia coi suoi figli di primo covile perché l’intruso aveva niente soldi ma un gran fallo fosco - di
cui una volta già vecchio intravidi il peso attraverso le sguainate
mutande celestine estrapolate da cosce aperte nell’atto di infilarsi le
scarpe – e contribuì non poco al loro allontanamento, ancora molto
giovani, presso un nido da essi stessi ricreato pur di non presenziare
al suo recital da one-man-show di minestre sucate rumorosamente e di capitale del suo predecessore ancora più precipitosamente prosciugato.
Il tale sfacciato – intropito – forte del pacco e di millantato carisma godeva della fantasmagorica devozione della gran nonna tettona
e delle sue alte caviglie, le più belle che abbia mai visto. Troia
perfino nel trasmigrarmi autentiche bocce da fruttivendola e non
aristocratiche caviglie da cavalla da trotto, ma soprattutto perché
sfruttava i suoi consacrati figli naturali come poteva. A uno spillava
quattrini per acciuffare pesciolini di corallo che, a quanto
ricordo, erano il nutrimento favorito dalle sue mani diurne e dal collo
emerso dall’anima del seno e dai suoi lobi pendenti con aria candida.
Tanto candida pelle da abbisognare di trucco rosato d’oltremare
vespertino, possibilmente ogni giorno di una nuance inventata nuova
dalla sostanza mediterranea. Inoltre, con scaltrezza da bagascia –
pardon, da bagatto – trapiantava quote copiose di tali denari dentro le
cavità incessantemente deglutenti dei corvini suoi figliastri,
formicolanti sonnambuli da bidonville rimasti nell’untuosa capsula natia
mentre loro padre, come un indigesto ossicino d’oliva, girovagava
stopposo nelle grandi stanze e pulite del prezioso nuovo intestino della
grande-mère. A un altro figlio scroccava cibi freschi grondanti di
saporite calorie e vini sfiziosi e fruttati.
Di un altro prendeva il
calore, la preoccupazione costante verso di lei e l’odio feroce, che
quando si tramuta in amore è l’amore più celestiale che si possa
attribuire ad una creatura mortale. La ricordo con un bieco rispetto
psichiatrico, le vedo ancora un naso sottile dalle narici un po’
frementi che non mi sfugge mai perché io l’ho ripreso, parimenti
sensuale e indiscreto, da lei. Un giorno mi si disse “il nonno Giovanni è
morto”. “Ah”, risposi, “quel muffito è morto per davvero”.
Mio padre,
per pronto accomodo, mi schiaffeggiò; io, comunque, arrivata a casa
della nonna, andai a salutare il mio vero nonno mai conosciuto ritratto
giovane e diuturno nella mia futura rigenerabile letteratura, e gli
strizzai l’occhio. Ho omesso di dire che dal congiungimento
morfologicamente eterogeneo e innaturale della gnoccolona benestante con
lo sperma verdastro del favone irrancidito era nata una femmina,
Francesca, dalla faccia furtiva e disordinata ma dal corpo e dalle
movenze da autentica modella, ben espressa ancora oggi nei suoi
cinquantotto anni trigenerativi.
La fanciulla era l’unica persona
veramente addolorata dalla dipartita, i figli contratti si disperavano
perché la morte inaspettata sotto forma di laccio emostatico avevo
bloccato la opulenta defluizione di sangue di Zecca. I figli veri – e
annesse nuore - della grande-mère, consolavano la duplice vedova in un
parossismo di stiracchiato dispiacere di mani e fazzoletti e biascico di
tacchi ridiventati familiari, tutto sotto l’umanissimo sguardo del
Cristo in versione cuore-di-gesù sospeso a 45 gradi sul grande letto a
cascione di legno scuro.
Ben presto ella affogò la sua annoiata
disperazione in messianici cordogli e benevolenze e, giusto per smaltire
gli eccessi lacrimali e le suppurazioni dell’inconsolabilità, prese ad
arare ogni villaggio geriatricamente animato da madonnine, apparizioni,
goretti, stigmatizzati, esorcisti, miracolati e perfino cesellatori di
ex voto d’argento. Donde gitarelle, bianco mangiare in verre e coperchio
azzurro, carrube, cesoie in borsa per amputare infiorescenze engagées
in caduchi amarcord, the al pomeriggio, sciarpette in lurex, circoli di
cavalieri in farfallino a pois, sandali con zeppe di corda e grossi
alluci valghi introiettati ai piedi in bella vista, scoponi
assolutamente vincenti e inverosimili ripetuti ambi terni e quaterne.
Si
fece allungare un po’ i capelli, se li tinse di nero e dimagrì. Una
nuova Ava Gardner, sessantacinquenne con orgoglio marmoreo e un efficace
frisé di coralli, turchesi e tutti i bottoni d’osso sostituiti da
cammei di madreperla, ormai destinata a irretire dieci bogart della
terza età alla volta, senza per questo sentirsi obbligata a sposarne
alcuno. Divenne socia di un club di mare a portata di autobus e lì,
ingioiellata e munifica, si conquistò la benevolenza generale, non
esimendosi da thalassoterapiche passeggiate sul bagnasciuga sabbioso di
Mondello. Da qualche parte, a poca distanza da lì, passavamo le ore
mattutine a soleggiarci e nuotare io e la mia mamma, le mie amiche ed
io.
Il suo gran daffare di chiacchiericcio ecografico tuttavia non la
distrasse dal vegliare sulla castità obbligatoria delle sue nipoti
maggiori, me e mia cugina, in adolescenza avanzata e dunque prolifere di
sorrisi e ammiccamenti, noi bellocce e coscelunghe, verso l’altro
sesso. Io eccellevo per il seno, e questo s’è detto, la mia cuginetta
omonima invece per un bel sedere da salvataggio naufraghi. Le promenades
verso il gelataio conducevano la grande-mère guarda caso sempre più
spesso nella nostra direzione, mai che la grande mèr la risucchiasse, né
che una grande-merde le ostruisse il cammino.
Sicché, la troia tapina,
sacrificò le sue canoniche ciarle aleatorie con amiche vecchie e nuove
per pettegolezzi e spionaggi ben più soddisfacenti, miranti alle gesta
delle sue omonime nipotine, figlie empie di figli devoti e riportandoli
per il loro bene ai rispettivi papà o,ancora
più condite, al papà dell’altra. Nessuno dei fratelli di mio padre era
però disposto a concederle spazi domenicali tra rigori e fuorigioco, né
piatti di porcellana ridondanti di sughi speziati e dolci di suo
esclusivo e matronesco gradimento, né interesse per le sue faconde
lungagnate sull’immoralità di un triangolo di bikini che copre appena i
capezzoli o “le felle del culo”. La quale, dovendo essere accontentata,
si beava di come i familiari diretti per vero o per finta si facessero
inzuppare dal suo disgusto represso o dichiarato per tutti i
brancofamiliari giovani, chi puttana, chi pigro, chi irrequieto.
Dicevo,
i miei zii la sopportavano poco, perciò sbaraccava presto, grazie anche
alle mogli poco propense a trascorrere le ore in cucina per appagarle
il gargarozzo mai sazio di piccantume e di granfie di olio affiorante
giusto per rammollirle il pane. I piatti insipidi e bianchicci e qualche
chiazzetta di calcare appiccicata ad hoc finto casual sul suo bicchiere
erano l’ideale per tenerla lontana da quella mensa almeno per un paio
di mesi. Ergo con maggior frequenza lei sedeva a capotavola da suo
figlio-mio padre, il devoto sbirro che di più l’aveva odiata e che
adesso si sarebbe fatto amputare un dito perché lei posasse la mano
corallina sulla sua spalla anche per mezzo secondo.
Nel caso specifico, e
anche in quello generico-familiare era proprio mio padre
l’incontrastato maître del clan………, sia del nucleo originario che di
quelli integrati perciò, in definitiva… “me’ figghiu Ninu” alla sinistra
e nuora ab aeternis sorridente alla destra e la sua graziosa centrale
autorità ansimata dietro omessi “per favore” o “grazie”.
La troia aveva
spie ovunque, perfino nelle discoteche, io cambiavo spesso fidanzati e
lei, in un modo o nell’altro, ne veniva sempre a conoscenza. Allora si
faceva invitare a pranzo, talvolta anche feriale e, rimasta sola,
informava accuratamente mio padre suggerendogli di prendere
provvedimenti seri a mio riguardo, del tipo sequestro di persona. E dài
con i cazziatoni serali, e niente pacchi di maschio regalo per una
settimana intera. Questo per almeno tre estati di fila.
La quarta estate
morì al ritorno da una gita a Sciacca. Beccai una quantità di ceffoni
da mio padre anche questa volta perché alla notizia della sua morte non
solo non mi scomposi ma sollecitata da una sua provocazione o da un suo
nervosismo gli rimproverai di averla troppo, ma troppo, perdonata e
troppo amata e ascoltata nonostante fosse stata una pessima madre e una
pessima nonna.
Dopo avermi picchiata mi disse che non ero degna di
andare al suo funerale. Mi lasciò a casa e se ne andò con mia madre e
mio fratello. Avevo diciassette anni. Presi un taxi e raggiunsi la
chiesa a mezz’ora dalla fine della messa. C’era un mucchio inaspettato
di gente, molte signore erano commosse, c’erano bambini, frequentatori
del circolo, della spiaggia e altri mai visti né prima né dopo. Mi misi
in un ultima fila, ero abbronzatissima e bionda di mare, in prendisole
bianco e foulard per le spalle rosa shocking.
Non piansi per nulla ma
alla vista della corona bianca che mio padre le aveva dedicato ebbi il
mio primo attacco di tachicardia, poi un calo di pressione, poi svenni.
Un parente acquisito visto un paio di volte mi accompagnò al pronto
soccorso mentre la grande-mère accompagnata degnamente da un centinaio
tra parenti e amici pronunciava l’ultimo pettegolezzo riguardo al loculo
della tomba di famiglia che le era toccato. Mi pare di sentirla: “A’
faccia ri ‘ddra buttana i’ Concetta chi c’appa miettiri pi’ fuorza a’
so’ maritu ‘nnu me puostu”.*
* alla faccia di quella puttana di Concetta (sua sorella, che fece tumulare nella loro tomba di famiglia il marito, dicendo che era una sistemazione temporanea in attesa di acquistare un loculo che non acquistò mai) che le espugnò il letto dell'eterno riposo.
rossella
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