sabato 27 febbraio 2010

(26) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato

CAPITOLO XXVI
Policlinico
Dottor Peppino Pignatone


Si stava così bene, si stava. Inconvenienti del mestiere, direte voi. Senza dubbio, non per questo voglio sottrarmi ai miei obblighi, ci mancherebbe. Non datemi del nostalgico, per favore, però, sinceramente, non era meglio una volta quando per raccontare una storia si cominnciava dall’inizio e si andava avanti fino alla fine? Capolavori ci hanno scritto così, ma, ora no, non si usa più e bisogna scapicollarsi da un posto ad un altro e avanti e indietro, se no manca la suspence. Ma mi facciano il sacrosanto piacere!
Comunque, visto che ci siamo, vediamo di capire il perché ci siamo dovuti venire al Policliniclico. Non lasciatevi prendere dal panico. Capisco bene che la segnaletica vi sta facendo perdere l’orientamento. Non dovrebbe andare così, dite voi. Il vostro giudizio al riguardo non fa una grinza, ma il discorso ci porterebbe lontano. Vi basti ascoltare il breve ragionamento che segue. Perchè si usa la segnaletica in posti come questo? Ovvio, direte, per permettere a chi non conosce la strada di orientarsi e trovarla. Beh, diciamo che qui, invece, la mettono e basta. Come perchè? E io che ne so, magari c’è abbondanza di segnaletica invenduta e il mercato del settore langue e si rischiano diversi posti di lavoro. Con questo è tutto e sulla questione non ci torniamo più considerato che il punto non è questo e che la direzione da seguire io la conosco bene, quindi a che serve la segnaletica?

- Azzo, Infante, che è successo? Per farti smuovere quelle tue chiappe lardose ce ne vuole! E poi proprio qui? E a fare che, se posso chiedere? Non dire che vieni a trovare un vecchio amico, che poi sarei io, perché non è vero. Almeno su questo siamo d’accordo, vero, vice questore Infante?
- Sempre a babbiare vero, Pignatone? Il vizio non te lo levi mai? Proprio a te sono venuto a trovare, e non come amico, ma esclusivamente per una faccenda di lavoro.
- Non male come spiegazione, Infante. Però, me la togli la curiosità? con il lavoro che fai tu alla questura che c’entra una visita al medico legale? Se non mi sbaglio, tu le mani con le indagini non te le sporchi più da tanto tempo. Dico bene, Infante? o mi sbaglio?
- Vuoi avere ragione? Pigliatela, che vuoi da me? Puoi dire quello che cazzo ti pare, Pignatone, ma sono venuto qui per lavoro.
- Vuoi farmi capire che non devo farti domande? Come vuoi Infante, a disposizione, come sempre. Allora dimmi che cosa sei venuto a fare?
- Mi sono letta la relazione sull’autopsia di quel ragioniere ammazzato qualche settimana addietro
- Va bene, l’hai letta e allora? Bada, non ti sto chiedendo per quale motivo uno come te, che non dovrebbe averci interesse, l’abbia letta, ne’ il perchè, dopo averla letta, questo tizio lasci la sua comoda poltrona alla questura per venire qui. Mi pare evidente che tu abbia bisogno di chiedere qualche cosa a chi l’ha scritta quella relazione e che lo debba fare con discrezione. Mi sbaglio?
- Bravo Pignatone, continua così che stai andando bene! Si vede proprio che a te gli infortuni, è vero come si dice, non insegnano niente. Continua pure a fare lo spiritoso.
- E che dovrei fare Infante? Mettermi a piangere per come mi avete ridotto? Questa soddisfazione non ve la darò mai.
- Non mettere in mezzo chi non c’entra niente. Se sei finito qua, sai bene che lo devi solo a te stesso. Non dire fesserie.
- Comunque, Infante, per farla breve, ho da fare e mi hai pure scocciato. Se sei venuto è perché vuoi qualcosa da me, quindi finisci di annacarti e parla. Che vuoi?
- Ti ho detto che letto la tua relazione su Impallomeni. Beh, non c’è che dire, fatta bene. Chi te lo ha mai negato questo? Lo sanno tutti che il mestiere lo conosci.
- E allora? La relazione l’ho scritta, l’ho mandata a chi dovevo mandarla e per me la questione si è chiusa lì. E poi finiscila con i complimenti ipocriti. Non lo sai che da te e da quelli come te non ne accetto?
- Quindi, ti stavo dicendo che la relazione è perfetta. Il ragioniere aveva, è vero come si dice, consumato un rapporto contro natura prima di essere ammazzato, e questo va molto bene, poi, però, ci hai messo un passaggio che non ho capito. Anzi, se devo essere sincero, mi ha confuso le idee.

Questi due ormai dovreste conoscerli bene. Infante, è il collega di Cardascio che la Antocci considera il suo braccio destro. Anzi, se ricordate, mi pare proprio che lo abbia come designato a succederle. Non sembra un tipo losco, vero? Al contrario, pare un intellettuale con quella bella capigliatura fluente che si ritrova. Dite che portare i capelli così lunghi non sia opportuno per un poliziotto? Potete pensare quello che volete, Infante se lo può permettere, mica è un questurino che gira per le strade. Non è altissimo, però ha una bella presenza che si fa notare. Passa per stratega sopraffino e grande conoscitore di uomini e cose dentro e fuori la questura. Non piglia mai un partito preciso e questo impedisce ad amici e nemici di collocarlo. Diciamo che apparentemente sta bene con tutti, salvo poi… Quindi, se volete un consiglio spassionato, evitatelo, almeno fino a quando non diventa questore. Dopo sarà diverso, a meno che non siate, che ne so, prefetti o comunque, occupiate un posto al di sopra del suo.
Pignatone, in effetti, non l’abbiamo mai visto, dato che ha incrociato la nostra strada solo parlando al telefono col nostro commissario. Tuttavia, un’idea per quanto sommaria dovreste avervela già fatta. Fa il medico legale e, a quanto pare, sa fare bene il suo mestiere. Non pare, però, che sia molto contento di quello che fa, oppure del posto che occupa. Anche lui non è che sia un omone. Diciamo che rientra nella media di quelli della sua età, cioè dei cinquantenni che vanno per i sessanta. A primo acchitto, è una persona gioviale e allegra, nonostante lo scontento che si porta dentro. Ride e scherza con tutti e l’abbiamo potuto constatare anche con Cardascio, nonostante il fatto che non si trattasse proprio di barzellette. Infante sembra conoscere bene il cruccio del nostro dottore. Inoltre, non mi pare proprio che fra i due corra buon sangue. Comunque, stiamo a sentire come va a finire.

- A cosa ti riferisci, Infante? Non ti credevo così attento a questioni medico-legali e non mi risulta che ti sia mai occupato di casi di omicidio come, apparentemente, è questo di Impallomeni.
- Ah, vedi che ci torni? E lo sottolinei pure. Guarda che, come dici tu, può anche essere che non abbia mai seguito casi di omicidio, però le sfumature sono il mio pane quotidiano, Pignatone. Questo dovresti saperlo. Allora, proprio a quell’apparententemente mi riferivo. Non è che nella relazione hai usato una maniera così diretta per dire quello che pensi, ma - si vede che gli anni una qualche dose di prudenza te l’hanno insegnata - hai detto e non detto. Vorrei capire il perché.
- A me non pare proprio che le cose stiano come dici tu.
- E dai Pignatone, vuoi proprio passare pure questi ultimi anni che ti separano dalla pensione a squartare morti ammazzati? Non dovrebbe essere un mistero, neppure per uno stronzo come te che fra qualche mese si liberarerà quella cattedra che tu sai.
- Cosa c’entra una cattedra universitaria con la mia relazione?
- Beh, allora ritiro quello che ho detto. Sei senza rimedio. Ti piace stare dove sei, orgoglioso e testardo come sei. Sei contento così? e stacci allora. Ma non venirti a lementare che pure gli imbecilli più imbecilli ti passano avanti.
- Mi staresti promettendo un appoggio per la cattedra? Non ci credo, Infante. Tu non fai mai niente per niente. Cosa vuoi in cambio?
- Ma niente, dottore, cosa vuoi che sia venuto a chiedere. Ti sto solo dicendo che nella tua bella relazione quel dire e non dire proprio non ci voleva. Tutto qui. Devi sapere che abbiamo in mano quello che ha ammazzato Impallomeni. Però, ti immagini gli avvocati? A pesce ci si buttano sulla tua relazione.
- Ma io la relazione l’ho già mandata, te l’ho detto, mica posso rimangiarmela.
- E che non lo so che l’hai mandata. L’ho letta. Ci chiedevamo se ne avessi mandato solo quella copia o magari se ne avessi parlato con qualcuno.
- Cardascio mi ha detto di mandarla per le vie gerarchiche e io così ho fatto. Non c’è altro, nessun’altra copia. E con chi cazzo pensi possa parlare dei risultati di una autopsia, con mia moglie?

Siete rimasti sfavorevolmente impressionati? Ma via, per piacere, mi vorreste far credere che non siete mai incappati, almeno una volta nella vita, in discorsi simili a questo? Vi sembrano tutti e due dei farabutti? Può darsi, chi lo nega. Tuttavia, non mi pare il caso di essere così drastici. Ma dove vivete? Ah, ora non cominciate a fare i razzisti che mi incazzo davvero. Mi dispiace, ma non lo accetto. Lo sapete voi, che tanto fate i moralisti, che minchia di pensione prenderebbe il nostro dottore dopo quasi quaranta anni di servizio? Provate a sparare una cifra. Non ve la sentite? E fate bene. Comunque, non si tratta poi di chissà quale intrallazzo! Mica era una certezza quella di Pignatone. Aveva soltanto qualche dubbio sulla dinamica della morte del ragioniere. E Infante non è che abbia tutti i torti quando parla di quello che si sarebbero inventati gli avvocati. Volete che un omicida resti impunito? Questo no, ma neppure che un innocente paghi per colpe non sue? E vabbè, allora con questo modo di pensare avremmo già risolto da un pezzo il problema del sovraffollamento delle carceri. Ma fatemi il santo piacere!

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mercoledì 24 febbraio 2010

(25) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato

CAPITOLO XXV
Via Vittorio Emanuele
Caffetteria Rizzo I

- Egregio dottore, venga, venga. Non si faccia problemi. Si accomodi. Qua per fortuna si sta benone, non crede?

In effetti, Cardascio non ha torto. All’Antica caffetteria Rizzo si sta proprio bene. E non perché abbia qualcosa di speciale rispetto agli infiniti altri bar/caffetterie della città. Anzi, se proprio si volesse essere pignoli, l’arredamento è proprio al risparmio. Non ci sono ne’ marmi, ne’ luci sfavillanti. Però, una cosa particolare ce l’ha. E’ uno dei pochissimi locali dove ci si possa sedere a consumare. Un tempo ce ne sono stati tantissimi. Ora, invece, quelli che ti offrono, a pagamento s’intende, una sedia ed un tavolino, si possono contare sulle dita di una mano. In tutti gli altri la consumazione si fa rigorosamente in piedi e, magari, di premura, come se al personale il cliente stesse antipatico. Ovviamente, c’è modo e modo di dimostrare questa, si fa per dire, antipatia. Non dovete mica pensare che nei nostri caffè i clienti vengano trattati male. No, questo davvero non si può dire. I camerieri, quasi tutti, sono gentilissimi e apparentemente armati di una innata pazienza visti gli infiniti modi con cui un palermitano può ordinare un semplice caffè. Ma, se li guardate con attenzione, noterete che, anche quando il locale è deserto, sembrano al limite del collasso psico-fisico tanta è la mole di lavoro a cui sono sottomessi. Lavoro, all’interno del quale, vi parrà strano ma è così, sembra non debba rientrare servire la clientela.
In questo l’Antica caffetteria non fa eccezione. Se avete la sfortuna di incrociare il turno di un particolare cameriere è meglio che rinunciate al vostro caffè o cappuccino che sia. Tanto, state pur tranquilli, basta fare meno di cento metri e ne troverete quanti ne volete di bar.
Oggi, purtroppo, è proprio di turno, quindi evitiamo di farci notare. Sediamoci qui che il tavolino di Cardascio ce l’abbiamo proprio di fronte e ordiniamo qualche cosa. Pure quelli che non hanno voglia di niente, per cortesia, facciano la loro ordinazione. Tutto, tranne il famigerato bicchiere d’acqua. Dio ce ne scampi e liberi!
Oh guarda chi si vede, il dottore Virgilio. Vai a vedere che il commissario aspettava proprio lui?

- Quindi siete andato dal commendatore Perez e gli avete chiesto un sopralluogo tecnico dell’area? Ho capito bene?
- Proprio così Commissario. Il dottor Perez ha acconsentito senza fare troppe questioni.
- Permettete una domanda.
- Prego commissario, sono qui per questo, mi dica.
- Non capisco e mi spiego. Che c’entravate voi con i sopralluoghi?e, mi pare di ricordare che la pratica, almeno per quanto riguardava la Sovraintendenza, era già chiusa o mi sbaglio?
- Chiusissima commissario. Il previsto parere era già stato reso a chi di dovere.
- E allora? Perché Perez riapre una questione archiviata e per di più quando a chiederlo è lei, dottore, che non dovrebbe occuparsi di tali questioni? Se potete chiarirmi questo dettaglio.
- Capisco che la cosa vi suoni strana, commissario. Se mi seguite cercherò di darvi qualche elemento, per così di dire, di contesto che vi chiarirà certamente il motivo di un così sollecito consenso del sovraintendente. Dunque, mi pare che, parlandovi della visita della buonanima del ragioniere, vi abbia già accennato alla mia, chiamiamola, inclinazione a venire incontro ai problemi dei colleghi, di tutti i colleghi, sia ben chiaro. Pure il dottore Perez ha avuto modo di apprezzare la mia esperienza in diverse occasioni. Con questo, credetemi, non è che voglia mettere in dubbio la competenza del sovraintendente. Solo che, di certo lo saprete, oggi le nomine apicali, i capi degli uffici per essere chiari, risentono molto della vicinanza alla politica. Non intendo contestare questo sistema. Affatto, però, vede, prima non è che i vecchi dirigenti fossero lontani dalla politica, solo che venivano dall’interno e conoscevano uomini e cose della amministrazione. I nuovi, invece, sovente di elevatissimo spessore culturale e professionale, che vuole, non masticano molto di leggi e regolamenti. Anzi, qualcuno dice pure che sono solo lacci e laccioli che bloccano e ritardano. Per stringere, commissario, Perez mi era grato e una cosuccia come quella non me l’avrebbe negata mai.
- Chiaro, ora è chiaro. Ma avete parlato chiaramente con il sovraintendente? Cioè gli avete raccontato proprio tutto quello che Impallomeni era venuto a dirvi?
- Non mi è sembrato il caso commissario. Certamente, gli ho ricordato che la questione stava a cuore al nostro vecchio collega e che questo continuava ad occuparsene per conto dei frati dell’Incoronazione. Ma, del resto, questo dettaglio Perez lo sapeva già.
- Dite?
- Sicuro commissario, perché Perez è pure lui un ex alunno dei frati e non ha smesso di frequentarli.
- Vi siete mai chiesto il perché di tanto attaccamento?
- A chi vi riferite?
- Sto parlando di Impallomeni, dottore. Non vi è sembrato strano che il nostro ragioniere continuasse a seguire una pratica che gli era passata per le mani quando era ancora in servizio?
- Caro commissario, dovete sapere che la vita mi ha insegnato a non meravigliarmi di nulla. Quindi, se mi chiedete una risposta perentoria, allora non posso che dirvi che non mi sento di negare ne’ di affermare niente circa le reali intenzioni di Impallomeni riguardo al progetto. Tuttavia, stando ai fatti e alle carte posso dirvi che difficilmente avrebbe potuto trarre un beneficio personale dall’operazione. Sempre che l’avesse voluto,
- Vi riferite alle modalità di finanziamento del progetto?
- Proprio a quelle commissario. Secondo la convenzione nessuno dei richiedenti, Impallomeni compreso, avrebbe gestito i soldi della regione e i benefici finali sarebbero andati solamente ai frati.
- Ma mettiamo il caso che qualcuno avesse potuto promettere una ricompensa nel caso le cose si fossero risolte in modo positivo.
- Ripeto, commissario, posso dirvi come funziona tecnicamente la cosa, ma non mi sento di rispondere sulle intenzioni o gli interessi degli interessati. Non pensate che non ci abbia riflettuto pure io sull’interesse mostrato da Vitangelo Impallomeni al recupero dell’area di vicolo delle mandrie. Ma, se permettete le conclusioni me le tengo per me, in quanto pure illazioni. La logica, al contrario, mi ha sempre detto che se le cose si fossero bloccate ci avrebbero rimesso i frati, così come, se il sopralluogo avesse avuto l’esito sperato, sarebbero stati i frati ad avvantaggiarsene.
- Egregio dottore, devo veramente ringraziarvi. La vostra collaborazione è stata esemplare, davvero. Ora però, se permettete.
- Scusate, commissario, ma la questione non è mica finita.
- Ah no?

Che ve ne pare? Che vi avevo detto? Qui si sta che un piacere, seduti comodamente come al cinema. Sorseggiamo il nostro caffè e ci guardiamo lo spettacolo. Beh, l’audio non è granchè, bisogna riconoscerlo. Però, sul resto non accetto lamentele. Scusi? Come? Ah, dovete lavare il pavimento? Proprio ora? Sì, ci mancherebbe altro. Possiamo stare seduti e sollevare i piedi mentre voi passate lo straccio? Certamente. Zitti per carità, se no poi chi lo sente a quello.
Perché non cambia quell’acqua lurida che c’è nel secchio? E che so io.

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sabato 20 febbraio 2010

7. Caracas


E’ la capitale del Venezuela, anzi, della republica Bolivariana de Venezuela. Il Nome Caracas viene dalle varie tribù di Indios che abitavano questa terra quando arrivarono ” i conquistadores”. Si diceva che in Venezuela,” proprio nella la zona centro nord delle sue coste e montagne ,esisteva un luogo dove la fertilità del terreno, la mitezza del clima, la ricchezza dei suoi torrenti e la meraviglia della sua natura producevano un desiderio di conquista.”


Questa zona è Caracas . Stamattina alle 6 sono andata a fare yoga nel Parco del Este, vicino a casa mia, insieme a degli amici. Mentre ero coricata per terra cercando di capire dove fosse il piede e dove il mio braccio, ho deciso invece di guardare il cielo. A quell’ora passavano una infinità di pappagalli, di tutti i tipi, da quelli piccolini (perico cara sucia*) alle guacamayas** che sono quelli grandi e colorati.


Da sotto in su vedevo i rami degli alberi e i pappagalli posarsi su di essi. Poi me ne sono andata a prendere il caffè da Arabica che è un bar dove preparano la prima colazione. Lì mi sono incontrata con Angela e Francesco. Il piatto tipico è il “pabellon criollo” che consiste in: platano
(banana grande) fritto, fagioli neri, carne sminuzzata e con varie spezie, e l’arepa che è di mais. E’ squisito. E insieme, un frullato di papaya o di ananas.


Questo bar è un centro dell’oligarchia venezuelana, si riuniscono lì e passano il tempo a criticare tutto quello che fa Chavez, a rimpiangere i vecchi tempi quando avevano tutto quello che volevano ed il petrolio correva a fiumi e si trasformava nelle loro tasche in ricchezze enormi. Ma anche adesso I Chavisti e gli oligarchi fanno "negocios" tra di loro. Guadagnano un sacco di soldi e la corruzzione è spaventosa.


Invece, il Parco del Est, a pochi metri di distanza, adesso è il parco del pueblo, alla portata di tutti, l’ingresso è gratis, e la mattina ci vanno tantissime persone a correre o a fare ginnastica, o yoga, o thai chi. Qui si vive sempre con queste contraddizioni. L’Est è la parte ricca di Caracas e l’Ovest quella più popolare. Molte persone dell’est non hanno mai preso un mezzo di trasporto pubblico, non conoscono la parte storica di Caracas, la Plaza Bolivar, La Plaza Caracas, Il
Silencio.


Invece gli altri, quelli dell’Ovest e gli abitanti dei Ranchos (Favelas,) conoscono benissimo l’Est, sono stati : donne di servizio, operai, tutto fare. Hanno pulito le loro piscine, mantenuto i loro giardini, lavato le loro macchine. E sono tanti! E poi ci sono gli stranieri: Italiani, Portoghesi e Spagnoli che sono arrivati qui negli anni 50, chiamati dall’allora dittatore del Venezuela: Marcos Perez Jimenez. Si serviva degli stranieri per i loro mestieri: Ebanisti, Operai, specialisti del marmo, costruttori.


Gli immigranti hanno lavorato duramente, hanno poi aperto fabbriche, negozi, alberghi, e si sono arricchiti, hanno avuto qui, quello che a loro paese era impossibile. Ancora adesso, a Menfi, quando incontro qualche vecchio Menfitano che ha vissuto e lavorato per tanti anni in Venezuela, sento nelle sue parole una grande nostalgia. Sono tornati, ma rimpiangono i giorni passati, questo clima, le “negritas”, la birra. Anche a me succede lo stesso, quando sono a Menfi, a volte mi viene la nostalgia del tropico e quando sono qui, penso che è bello vivere in Sicilia. Vorrei che una magia, mi facesse decidere, dentro di me, per l’uno o l’altro, così me ne starei tranquilla.


Proprio di fronte a casa mia, c’è il Club Uruguayo. Mentre scrivo,si sente la musica del tango, perché due volte alla settimana c’è la gara e la scuola di tango, e l’odore della carne alla brace, "carne buona" importata dall’Uruguay. Dalla finestra del vicino si sentono gli spari di un film di azione, e dall’altra parte una struggente canzone Messicana.
*********

*Perico cara sucia vuol dire: Perico faccia sporca. Il nome perico, qui vuol dire tre cose:
1- Il nome di questo pappagallino.
2-L’uovo tipo arriminato con pomodoro e cipolla.
3- La cocaina

**Guacamaya: Questo tipo di pappagallo si chiama Guacamaya Bandera perché i suoi colori sono quelli della bandiera del Venezuela: Giallo, rosso e blù
(alessandra vassallo)



(24) il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato


CAPITOLO XXIV
Palermo? Può essere.

- Guarda che è solo un’impressione. Non c’è, assolutamente, niente di sicuro, perchè quello non fa mai capire cosa veramente gli passa per la testa. Però, mi è sembrato più disponibile, più rilassato. Pensa che si è anche messo a ridere.
- Allora è vero che ci hai parlato di nuovo?
- E che dovevo fare? me lo dici tu che altro potevo fare?Per come si è messa la situazione, ormai, il coltello dalla parte del manico ce l’hanno loro.
- Io davvero non ti capisco. Certe volte parli come se conoscessi solo tu come veramente stanno andando le cose.
- Ma se sai tutto! La verità è che non ragioni, questa è la verità. E sforzati ogni tanto! Ci devo tornare un’altra volta? Maledettissima lettera anonima! Ci ha fottuti quel cornuto! Lo sai che sono pure arrivato a pensare che la lettera l’hanno scritta loro?
- Non dire minchiate. Non ce li vedo a fare certe cose.
- E qui ti sbagli! Ti lasci abbindolare e non ragioni. Ti pare che dopo tutto questo tempo contino ancora così, solo per quello che predicano? Sei proprio un cretito, lasciati pregare.
- Certo, lo scienziato sei solo tu. Ci manca solo che mi vieni a dire che anche quelli che gli hanno ammazzato facevano intrallazzi come tutti.
- Dio ce ne scampi e liberi, santi uomini erano quelli là. Forse, un poco ingenui e sprovveduti, ma santi cristiani. Però, però non è che ci sono solo quelli là. Questo dovresti saperlo pure tu.
- Non darmi del babbasone più di quello che sono. Certo che lo so, ma da questo a dire, come fai tu, che arrivano a scrivere lettere anonime alla questura ce ne corre.
- Vuoi riflettere un minuto, un minuto solo? Me lo fai questo favore?
- Amunì, come la fai lunga. Devi dire qualche cosa? E dilla e così la finiamo una volta e per tutte con questa discussione.
- Stammi a sentire e non parlare, mi raccomando! Allora, prima che arrivasse quella fottutissima seconda lettera, che cosa sarebbe successo al progetto?
- Beh, lo capiscono pure i picciriddi: che se, puta caso, veniva fuori che l’ omicidio del ragioniere c’entrava in qualche maniera, si bloccava tutto e ce ne sarebbe voluto di tempo per farlo ripartire il progetto.
- Bravo, lo vedi che quando ti ci metti ci arrivi pure tu? Bene, andiamo avanti. E noi, se si bloccava tutto, ci guadagnavamo sì o no?
- Certo che sì!
- Bravissimo! E ora, invece? Ora che, come mi dici tu stesso, le indagini si stanno per chiudere su quell’altra pista, quella della frociaggine di Impallomeni? Che succede ora?
- Ah, ho capito.
Gli si legge distintamente negli occhi che, finalmente, ha chiaro dove stanno andando a parare le cose. Esattamente come in un film degli anni cinquanta, ce l’avete presente? Allora si usavano spesso questi trucchi. Che ne so, una donna veniva pugnalata e la macchina prima ne inquadrava il viso per poi zummare sugli occhi dell’attrice. E negli occhi della morente si riusciva a scorgere in modo confuso una sagoma, un dettaglio che rivelava solo al detective chi fosse l’assassino. Col nostro personaggio è andata esattamente così, in quel luccichio d’occhi si è intravvista una stretta fascia colorata. Sicuramente i colori erano più di uno, però la visione è durata solo un attimo. Poco, troppo poco, per dire quali.

Questi qua almeno dicono pane al pane e vino al vino. E’ chiaro che ci sono immischiati fino al collo e che ci hanno pure il loro interesse. In più, non sembrano molto contenti della piega che, a loro dire, starebbero prendendo le indagini. Cardascio è sempre il solito, non ci dice mai niente. Oppure questi ne sanno pure più del commissario? Vallo a capire. Visto, però, che l’abbiamo nominato, mi pare il caso di andarlo a cercare questo benedetto poliziotto.

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mercoledì 17 febbraio 2010

(23) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato

CAPITOLO XXIII
Palermo? Può essere.

- Ebbene, vacilla. Eh sì, poveretto non sa più a che santo votarsi. Ieri, invece, ho sentito don Ermete. Pure lui, santo cristiano, venirmi a raccontare certe cose.
- Quello lì, credi a me, non vede l’ora che tutta questa storia finisca. Ti ha chiesto ancora di quell’incarico?
- E come no, poteva mancare che non lo chiedesse pure questa volta! Il motivo della telefonata però era un altro, almeno così ha detto.
- Ah! che aveva di tanto importante da dirti?
- Don Raffaele gli ha chiesto consiglio.
- Don Raffaele a don Ermete? Certo che, formalmente, è pur sempre il suo priore, ma ancora non l’ha capito il nostro economo con chi ha a che fare?
- Gli ha domandato se era opportuno incontrare quel commissario.
- E lui?
- Dai, non mi dire che non t’immagini proprio cosa poteva rispondergli don Ermete.
- Che doveva comportarsi con giudizio e prudenza?
- Esattamente.
- Ti ha detto cosa ha deciso di fare Don Raffaele?
- E come no? Aveva tanta premura di evitare camurrie che l’ha lasciato lì e se ne è andato. Per venire ad informarmi, ha detto.
- Tu l’hai rassicurato, no?
- Certamente, gli ho detto che ne ho parlato pure dove e con chi di dovere.
- L’hai fatto davvero? Non mi avevi detto niente.
- Ma chi mi rappresenta don Ermete? Lo sai che gli mancano appena tre anni alla pensione?
- D’accordo, dovrà andarsene in pensione, però tre anni sono tre anni e la cosa per come me la prospetti tu dovrebbe risolversi molto prima.
- Si vede che di queste faccende non ne mastichi, ma non sei il solo, stai tranquillo. Guarda che per chiudere tutta la baracca mica ci vuole un mese! Anni ci vogliono e allora il nostro don Ermete sarà già in un bell’ospizio a godersi il meritato riposo.
- Se ci vuole così tanto tempo pure noi dovremo aspettare col rischio che qualcuno si goda quello che noi abbiamo seminato.
- Te l’ho detto, di queste cose non ne capisci. Lascia fare a me, tranquillo.
- Se lo dici tu, io ci credo, lo sai che ripongo in te la fiducia più assoluta.
- E fai bene, caro amico. Fai davvero bene! Si vede proprio che è soddisfatto, perchè quel gesto lo fa di rado e solo quando capisce che le cose vanno come devono andare. Lo fa in fretta, un poco perché se ne vergogna, ma, soprattutto, perchè non vuole che gli altri se ne accorgano. Ogni volta, se ne chiede il motivo e tutte le volte si risponde che compierlo lo fa stare bene, nonostante gli appaia come un gesto di superbia, anche blasfemo, a pensarci bene. Ma, le volte che ne avverte rimorso, sono ancora più rare del gesto di cui sarebbero la conseguenza.
Non vogliatemene, quindi, se tutto quel nero - il colore dominante della scena - lasci, solo per un attimo, intravvedere come un luccichio, come oro colpito da un indiscreto raggio di luce.

Una cosa comunque è certa: questi parlano cinese, almeno per me. Mi è sembrato di sentire dei nomi che già conosciamo, come quello di don Raffaele. L’altro, no, quel don Ermete, non mi pare di averlo mai sentito nominare.
Di altro non so proprio che dirvi, a parte che questo Don Ermete pare sia in confidenza con i nostri oscuri personaggi che, concedetemelo, non sembrano proprio dei galantuomini. Parlano di incarichi ambiti da preti sconosciuti e io mi chiedo che cosa c’entrino con la nostra storia. Che vi devo dire? Può essere che alla fine capiremo ogni cosa, oppure, che anche allora non capiremo proprio niente.
Capita anche quello nella vita e non solo nei romanzi.

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domenica 14 febbraio 2010

6. Ancora Margarita


Domani torno a Caracas, i giorni sono trascorsi velocissimi. Io sto in un posto che si chiama Los ranchos de Chana, ed è una montagnola su cui hanno costruito diverse case per ricchi, super esclusive, che per mantenerle costa un casino.

Quando i proprietari non sono qui, ci vivono le persone di servizio ed i custodi. Le case sono tutte aperte e veramente molto belle senza essere apparentemente di lusso. Rancho vuol dire: baracca. La mia giornata consiste in: svegliarmi molto presto, tipo alle 5, aprire le persiane ed ancora ci sono le stelle, e poi, poco a poco, dal mio letto, vedere come arriva l’alba. Per esempio stamattina ho visto nell’oscurità qualcosa di rosa, però molto pallido e poi il cielo ha cominciato a diventare azzurro, però il rosso è rimasto e si è trasformato in rosa. Gli uccelli si sono risvegliati ed i pappagalli hanno cominciato i loro voli.

Poi mi sono andata a fare un caffè e gli altri dormivano, mi sono seduta su una terrazza da cui si vede il mare e la vegetazione che scende fino a sotto, e col mio computer mi sono collegata ad Internet per leggere la posta. Siccome qui non c’è segnale, il proprietario della casa ha comprato il segnale di un satellite e quindi riesco a collegarmi.

Verso le 8 si è svegliata Maria Mercedes ed ho preparato il desayuno ( prima colazione) : tonno sminuzzato con pomodoro origano, olio e qualche fogliolina di menta e di basilico, arepa che sono delle pagnotte fatte con la farina di mais, qualche pezzetto di avocado, caffè.Verso le 11, un bagno in piscina da sola e a leggere il libro Viaggio in Sicilia di Dumas, tra un bagno e l’altro perché fa molto caldo. E poi mi sono messa a disegnare. Pranzo: risotto con un sacco di verdure, tutte quelle che restavano in frigo, squisito.

Ho pensato che a me di essere ricchissima non me ne frega niente. Della natura ne posso godere gratis quando voglio ed è quello che più mi interessa.In fondo fare sempre questa vita neanche mi piace, ogni tanto è bello immergermi in questa dimensione. Ma non per tanto tempo. Mi annoia. Preferisco l’attività e la gente normale.Di pomeriggio alla televisione trasmettevano il programma di Chavez Alò presidente, che dura molte ore.

Chavez, sempre rigorosamente con maglietta rossa, va in vari posti del Venezuela e conversa con i cittadini, canta, beve il caffè. A parte tutto: ma non è logico che una parte del popolo che non aveva mai avuto niente, che non poteva neanche andare dal medico ed altro, dico, non è logico che se arriva uno che offre loro paternità, medici gratis, mezzi di trasporto gratis per gli anziani, benzina a 50 centesimi il pieno, lo adorano e lo votano? Sarebbe assurdo se così non fosse. Io ancora non so definire Chavez preferisco non prendere drastiche posizioni, preferisco, con coscienza e decisione, la via di mezzo, le cose andavano malissimo prima di Chavez e vanno male anche adesso.

La natura se ne frega di Chavez e dell’opposizione e continua con il suo ciclo e con il suo alternarsi di giorno e notte. Forse è una posizione molto qualunquista, però è quello che sento.

(alessandra vassallo)


sabato 13 febbraio 2010

(22) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato

CAPITOLO XXII
Ciccio Martirano
Calati!

Cicciuzzo Martirano non ne ha voluto manco a brodo di studiare. E’ sempre stato una testa nt’allaria, perso continuamente, fin da bambino, in un mondo tutto suo, impermeabile alla vita che si svolgeva intorno a lui. Non solo a scuola, ma pure a casa coi suoi. Non che avesse da scialare povero picciriddo. Attilio Martirano nel fiore della sua maturità aveva già sviluppato quei tratti del suo carattere che lo avrebbero poi reso insopportabile da vecchio.

Non ti lasciava dire una parola, parlava solo lui senza curarsi minimamente se chi aveva davanti lo stesse ad ascoltare. Con Ciccio faceva come aveva fatto suo padre con lui. Nessuna confidenza perché quelle erano cose di fimmine, qualche sculacciata ogni tanto e magari pure una timpuliata se proprio se la meritava. Le occasioni per imporre la sua autorità di padre erano però scarse. Il bambino era buono, magari troppo buono e tranquillo. La televisione e i giornaletti, questa era la sua giornata.

Niente pallone per strada con gli altri ragazzi, niente sigarette. Niente, solo che di studiare non se ne doveva parlare. Gli schiaffi e le urla non servivano, Ciccio si metteva a piangere, ma senza strepitare come facevano gli altri bambini della sua età. Pareva un cane bastonato, quello pareva, in un angolo della cucina a singhiozzare in silenzio. La signora Martirano se lo guardava questo figlio, strambo già nel colore rosso dei capelli e nell’azzurro degli occhi - cose mai viste nella sua famiglia - e si scioglieva come tutte le madri. Si metteva in mezzo quando il marito alzava le mani, quelle poche volte che succedeva.

Ma anche con lei Ciccio, pure se più affettuoso che con il padre, non si apriva neanche un po’. Così lei si era come rassegnata alla sussistenza; non gli doveva mancare niente a quel figlio, doveva essere sempre lindo e pulito come la sua casa. Ciccio apprezzava le attenzioni della mamma, ma se gli scappava un sorriso, ogni tanto, era assai. Questo almeno il tran tran degli anni della fanciullezza e dell’adolescenza fino alla scoperta dei giornaletti sotto il letto.
Da dove avesse preso quel modo romantico di essere quello che era, questo proprio rimane un mistero.

Ciccio sognava il principe azzurro o, forse, è più corretto dire che sognava il re azzurro. I Romeo alla Zeffirelli, per dire, gli sono sempre stati del tutto indifferenti. Quello che Ciccio sognava era, per dire, un Connery – Robin Hood di ritorno dalle crociate, così come l’aveva visto in un vecchio film alla televisione. E pure questo sognare particolare per il povero Ciccio è stato un’ulteriore complicazione nella sua già non semplice vita di omosessuale proletario della nostra città.

Non è che le occasioni gli mancassero. Anzi questa sua predilezione per quelli più grandi di lui gli ha sempre assicurato un’intensa vita sessuale. Ma si è detto, Ciccio è sempre stato un tipo romantico pure non avendo letto Colette o Emily Bronte. Per cui ha fatto presto a impratichirsi dell’ambiente per concludere che non faceva per lui. Si era messo ad aspettare l’occasione della vita. Che volete, Ciccio questa cosa l’ha decisa che non aveva neppure compiuto diciotto anni. Bisogna capirli i giovani!

No, non mi sono mai piaciute quelle cose. E ho tentato di farglielo capire. Lui ci restava male e non telefonava per qualche giorno. Io la soddisfazione di cedere non l’avevo data mai a nessuno e non chiamavo manco io. Però, presto ho cominciato a capire una cosa: che mi piaceva farlo contento. Anzi, che questa era la cosa che più mi rendeva contento, assecondarlo, permettergli quello che più lo faceva felice. Ma più ci pensavo a quella cosa, più ci restavo male. Bisogna capirmi. Quei pochi amici che mi ero fatto mi dicevano che non bisognava mai calare le braghe perché pure l’uomo più buono del mondo se ne approfitta. Che le cose troppo facili alla fine stancano presto. A me mi terrorizzava l’idea che lui potesse lasciarmi. Comunque, un grande casino in testa.

All’inizio non mi eccitavo neppure. Ma era bastato leggergli in faccia la delusione e mi sono sforzato di venirgli incontro.

E’ giovane Ciccio e basta poco: un po’ di buona volontà da parte sua e l’esperienza di Impallomeni e le cose, almeno all’apparenza, sembravano a posto. All’apparenza però, perché a lui vederlo vestito in quel modo non gli piaceva.
Il ragioniere non era uno che parlava. Per quanto Ciccio lo stuzzicasse gli strappava solamente qualche parola che poi doveva con pazienza ricucire insieme ad altre dette in altri momenti. Così, e non perché Ciccio non fosse bravo a cucire, ne veniva fuori una storia un po’ sconclusionata. Impallomeni non era sicuro di averlo sempre saputo di questa sua diciamo inclinazione. Ricordava qualche episodio e ricordava che si accorgeva di guardare i ragazzi un po’ troppo a lungo. A parte questo, trentanni sempre con la stessa donna, due figlie e lavoro. Lavorava solo lui a casa e le spese erano tante.

Perciò lo straordinario lo faceva sempre e più ce n’era e più ne faceva. Così durante la settimana lavorava tutto il giorno dalla mattina alla sera. Poi a casa con la moglie e poi con le due bambine. Sempre la stessa storia per quasi trentanni. Ciccio lo capiva quanto gli era costato raccontargli quelle cose così intime e quando un giorno ha parlato della sua prima volta, a lui gli è parso il momento più bello della loro storia. La signora Impallomeni era ammalata, anzi era in ospedale. Impallomeni faceva la stessa vita di sempre. All’uscita dall’ufficio non andava a casa, ma al Policlinico. Un viaggio con l’autobus di quasi un’ora, tanto che arrivava dalla moglie quasi alla fine dell’orario delle visite. Gli infermieri lo sapevano e lo facevano restare un poco di più degli altri parenti. Quando finiva pure la visita all’ospedale, voleva solo arrivare a casa e andare a dormire. Gli passava pure la fame. All’uscita c’era il capolinea del 108.

Quella sera è salito nell’autobus vuoto, si è seduto e si è addormentato quasi subito. Si è svegliato per una scossa senza sapere quanto tempo fosse passato per trovarsi accanto un ragazzo che lo guardava. Era cominciata così e ce n’era voluto di tempo prima che gli passasse la vergogna per quello che aveva fatto mentre la moglie stava in un letto di ospedale a morire sola come un cane.
Ciccio se l’era visto arrivare all’albergo Mozart quando ormai ad Impallomeni queste cose non gli facevano più ne’ caldo ne’ freddo. Era diventato uno dei tanti, marito e padre di giorno e lupo mannaro di notte.

Certamente che era uno schifo quella fetenzia di lavoro! Che non l’avevo capito subito? Mio padre aveva preso informazioni e non se ne doveva parlare. E’ magari è stato proprio questo che mi ha fatto decidere. Lavoro assai e soldi picca. E fosse stato solo quello. No, c’era pure che dovevo fare il ruffiano a quelli che ci venivano all’Hotel. Pure a quelli che in compagnia com’erano allungavano le mani con la scusa di dare la mancia. Quartararo pareva che non c’era, ma sapeva e vedeva tutto quello che succedeva. Guai a sgarrare. I clienti diceva. Alla faccia dei clienti! La maggior parte erano solo porci arraggiati. Venivano con qualche picciottello, facevano quello che dovevano fare e poi se ne scappavano con gli occhi calati se si accorgevano che li guardavo. Mi toccava puliziare le porcherie che lasciavano.

Meno male che non se ne vedevano tanti.
Non che ci avessi levato mano. Pure a me capitava di andarci con qualcuno. Lì però non volevo. Avevo l’impressione che Quartararo avrebbe spiato pure a me mentre facevo quelle cose e non mi piaceva, non volevo dargli questa soddisfazione. Ogni volta che passava, mi taliava e rideva. Che cazzo ci aveva da ridere quel vecchio bavoso? Però con me non ci ha provato. Mai, solo occhiate e mani addosso mai.

Che potevano essere, sei mesi? Sì, si avvicinavano le feste di Natale. Me lo ricordo che là dentro si moriva di freddo. Non ne ha riscaldamento l’albergo, solo qualche stufetta elettrica dentro le stanze che si accendeva quando arrivavano i clienti.
All’inizio, non mi ha fatto una grande impressione. Mi pareva uno come tanti. Veniva un paio di volte al mese, certe volte magari tre, e sempre con un picciotto diverso. Faceva quello che doveva fare e se ne andava, guardando pure lui quando gli pareva che ero distratto e non me ne accorgevo.

In quel mondo le voci girano. Così pure il ragioniere aveva saputo che, se ce ne fosse stato di bisogno, c’era un alberguccio ritirato e fuori mano dove tutti si facevano i fatti propri. E dato che a Impallomeni gli altri posti non gli garbizzavano per niente, perché o erano troppo in vista e c’era il rischio di incontrare chi non volevi incontrare, o troppo appartati e c’era il rischio di finire male, alla fine si era deciso e c’era andato pure lui all’albergo Mozart.

Quello che gli avevano detto era vero, tutti si facevano i fatti propri. Non chiedevano i documenti e il prezzo della camera si poteva fare, anche con la sua pensione. Solo il padrone non gli piaceva. Non è che avesse fatto o detto chissà che cosa. Questo no, ma così senza una ragione non lo poteva vedere. Magari era perché sorrideva sempre che pareva un cretino. Però gli anni che aveva gli dicevano che quello fissa proprio non c’era e che c’era da trattarlo con la canna, senza dargli troppa confidenza. E c’era pure un picciottello. Poi, aveva saputo che faceva il cameriere dell’hotel e che si chiamava Ciccio. E guarda caso Ciccio, invece, gli piaceva. No per quelle cose, almeno all’inizio manco ci pensava. No, gli piaceva perché era strano. Difficile dire in che senso strano. Ciccio aveva tutte le cose a posto, non era ne’ sciancato, ne’ strabico, però era rosso di capelli e questa cosa gli faceva impressione. Non come una cosa che ti tiene a distanza. Al contrario i capelli rossi di Ciccio, fin dal primo momento, erano stati come una calamita per le sue mani. Gli sarebbe piaciuto carezzarglieli, ma si tratteneva. Lì nessuno dava troppa confidenza a nessuno. Gli occhi poi! Ciccio aveva due occhi azzurri e grandi che parevano quelli di un picciriddo piccolo.

Ci ha messo due mesi per decidersi a fargli una carezza con la scusa di dargli la mancia. Niente di che, solo una piccola pacca sulla testa e un pizzicotto alla guancia come farebbe un padre con il figlio.
Il picciotto non ha fatto la faccia cattiva, anzi, ma - non lo poteva dire con sicurezza - gli era parso pure che avesse quasi sorriso. Ma lui era troppo affannato a scappare.

A me non mi pareva l’ora. Solo qualche taliatina prima di andarsene come gli altri, perciò quando si è deciso, oh Signore! Cosa vi devo dire? Non è successo niente, non ha fatto niente di che. Mi ha solo carezzato i capelli con la scusa, mica sono fesso io, di darmi la mancia. Io ero confuso e non sapevo che cosa fare. Gli avrei afferrato la mano e l’avrei costretto a carezzarmi ancora. Però in queste occasioni resto imbambolato come un cretino e l’unica cosa che sono riuscito a fare per fargli capire che mi piaceva è stato un sorriso che lui manco se ne è accorto, scantato com’era.
E’ cominciata così.

Vitangelo non era un santo. Ho venticinque anni, ma lo so pure io che nessuno è un santo su questa terra. I santi sono solo quelli delle immaginette che le monache ci davano all’asilo che manco paiono cristiani veri.
E c’aveva queste mania che a me non mi è mai piaciuta.
Così è successa la disgrazia e ora lui non c’è più e Quartararo se ne approfitta più di prima.

(Accì)

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mercoledì 10 febbraio 2010

5. Margarita


Margarita 4 Febbraio 2010

L’ammiraglio, navigando a ponente della costa di Paria,
si allontanava sempre più in direzione nordovest
perché la calma e le correnti lo spingevano verso quel lato;

in modo che Mercoledì 15 Agosto lasciò il Capo,
che chiamò delle Conchiglie, a mezzogiorno,
e l’isola di Margarita a ponente a cui pose questo nome
forse per ispirazione divina, perché insieme a quest’isola
c’è quella di Cubagua da cui abbiamo preso una infinità di perle…”.


Hernando Colon (figlio di Cristoforo Colombo )

*****


Immaginate una casa sotto una collina, una collina selvaggia, una casa costruita con fango e legno, con tante piante di bouganvilles dal rosa al viola, con palme da cocco, una piscina con il tobogan con una piccola isoletta con una palmetta nel mezzo, una stanza con una persiana che si apre completamente e ti trovi fuori, e di fronte: il mare dei Caraibi che qui si chiama mar Caribe che per me vuol dire: scoperta, pirati, tesori, stupore, avventure, soprusi, misteri.


Ebbene, eccomi qui.

Sono di quelle situazioni in cui mi ritrovo ogni tanto perché ho dei cari amici che mi invitano.In questo caso, si tratta di Maria Mercedes, conosciuta nel “76.Siamo partite stamattina da Caracas con l’aereo, linea Rutaca, 45 minuti ed eccoci qui. L’aereo pieno di Chavisti con maglietta rossa, infatti oggi è "fiesta nacionàl", l’anniversario del golpe fatto da Chavez contro il governo di Carlos Andrès nel 1992, non solo ma in questi giorni a Margarita si svolge la serie del Caribe, un importantissimo campionato di baseball a cui partecipano tanti paesi dell’area dei Caraibi, per cui sull’aereo c’erano tanti tifosi perché qui, il baseball, è lo sport nazionale.


Nella mia valigia c’erano: un barattolo di pesto fatto da me, due pacchetti di pasta De Cecco: linguine n 5, parmigiano e pecorino portato dall’Italia, una bottiglietta di olio Planeta appena fatto, origano di Menfi. Quindi appena arrivati nella casa dei parenti di Maria Mercedes mi sono messa a cucinare, infatti tutti si aspettavano la mia “ esquisita pasta con pesto” fatta da una Italiana.


A parte ho anche preparato delle olive conzate e dei pomodori sbucciati e conditi con olio, origano e basilico. Il momento di servirla, come sempre è stato drammatico perché i venezolani, riguardo al cibo sono abbastanza anarchici ed arrivano quando ne hanno voglia e noi italiani sappiamo bene che la pasta fredda è uno schifo, e quindi a me è venuta una specie di ansia perché avevo paura che non arrivassero a tempo. Invece è andata bene. La pasta buona e condita anche con patate e fagiolini, proprio alla Genovese.


Dopo colazione dopo vari ed inutili tentativi di collegarmi ad Internet, mi sono coricata nella mia stanza, sotto un ventilatore bianco e vista al mare dei Caraibi, pensavo che forse da lontano avrei visto arrivare misteriose navi.
Ed invece, mi sono addormentata quasi subito.


(alessandra vassallo)


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(21) Il commisario Cardascio e lo spillone insanginato

CAPITOLO XXI

Don Raffaele Cimò

Addubba!

- Ma che cosa mi venite mai a raccontare benedetto cristiano! Che ne capisco io di queste faccende, vecchio come sono!

- E’ che, padre reverendissimo, io non so più che partito prendere.

- Se lo dite voi! Non eravate tutto contento che non è passato neppure un mese? Tutto risolto era. I problemi della congregazione, ringraziando il Cielo, potevamo considerarli finiti. Ora, perché venite a lamentarvi di questo commissario che neppure conosco e di quell’altro mischino, che Dio l’abbia in gloria? Pace all’anima sua! Che brutta fine, che brutta fine!

- Reverendo padre, ho cercato di spiegarle che forse è meglio che ci parliamo con il commissario.

- Che gli devo dire io che non so niente di niente? No, don Raffaele, questa cortesia me la dovete fare per carità di Dio. Ve lo chiedo come un padre, consideratela una preghiera. Mi ci vedete a parlare con un poliziotto?

- Non mi sono spiegato bene e me ne scuso padre priore, ma non era mia intenzione. Su questo potete stare tranquillo.

- Ah grazie Don Raffaele, per un momento ho pensato che voi….ma che volete, è la testa, caro fratello, la testa che non mi regge più. Non vedo l’ora di lasciare questo peso e le vostre mani sono sicuramente le più adatte a riceverlo.

- Non mi confondete, per carità. Non è questo il momento per parlare di certe questioni. Mille anni di buona salute deve concedervi il Signore. Mille anni ancora. Tuttavia, sul punto, padre santo, come mi devo comportare? Pensate che sia opportuno quest’abboccamento con la polizia?

- Voi, l’avete detto, caro don Raffaele. Che sappiamo noi di quel povero disgraziato? Niente, assolutamente niente. Però che ci abbia aiutato in questi ultimi anni è un fatto che è inutile nascondere. Nascondere poi per quale motivo? Comportatevi secondo coscienza e opportunità, figlio caro.

- Proprio sull’opportunità ero venuto a chiederle….

- Secondo coscienza e opportunità, badate bene, don Raffaele.

Perché prendersela. Era stato un tentativo destinato al fallimento ancor prima di essere messo in atto e questo lui lo sapeva bene. Dice di essere vecchio e di non starci con la testa. Sì vabbè. C’è sempre da imparare a starlo a sentire il reverendo padre priore. Sapeva e non sapeva. Era stato informato, ma non sapeva che avviso è stato preso.

Alla fine mi ritrovo senza ombrello, come sempre del resto. Ho sbagliato io a chiederglielo.

Don Raffaele si sente più vecchio degli anni che ha. Non tanti considerando l’età dei confratelli. Appena cinquantadue. Alto, con un leggero accenno di pancia, dovuta più che alla gola alla prolungata attività alla scrivania. Gli sarebbe piaciuto occuparsi dei giovani. Ne girano tanti lì attorno al convento. Non è stato possibile perché non c’era nessuno che potesse occuparsi di quelle questioni pratiche che tenevano in vita, precariamente, la sua piccola comunità. Don Raffaele si è accontentato di quello che Dio o il destino – a volte gli capita anche di fare cattivi pensieri- hanno deciso per lui. Non è rassegnato però. Questo non lo si può dire di lui. Resiste il nostro frate nonostante le sirene cantino ogni giorno più forte. Tutto attorno a lui lo indurrebbe a mollare, la pavidità dei suoi superiori, la stanchezza dei confratelli, la situazione disperata della congregazione che fino a ieri contava soltanto sulla realizzazione del progetto non dico per rinascere, ma almeno per mantenere ancora in vita la sua tradizione. Poi è successo quello che è successo. Don Raffaele si è incupito e non ha più voglia di sedersi al suo tavolo di lavoro. Ha pregato e cercato conforto ma non è venuto altro che l’ennesima esortazione a smetterla con quella lotta disperata. A volte, si chiede se questa sua ostinazione non sia in fondo solo superbia e non già eroismo, come per molto tempo ha voluto credere

Gli altri, neppure il caso di pensarci. Sempre a raccomandare prudenza e pazienza, salvo poi, quando gli si fa presente che non possiamo durare a lungo in questa situazione, cambiare discorso. E il priore che parla di lasciarmi il suo incarico. Lasciare che cosa? La cura di quattro vecchi che non riescono più a badare a se’ stessi? I debiti che si stanno magiando tutto? Che cosa? Sia fatta la volontà di Dio!

E visto che aiutati che Dio t’aiuta, almeno quest’incontro col commissario era meglio farlo e farlo in fretta prima che magari a quello gli venga la bella pensata di venire qui in convento. Dio ce ne scampi! Così ha deciso alla fine don Raffaele. E non mi pare che sbagli. Cosa può fare da solo pover’uomo? Da qualunque parte si giri non trova nessuno disposto non dico a dargli una mano, ma neppure un consiglio. E’ andato da ogni parte don Raffaele. Bisogna dargli atto che si è comportato egregiamente. Nessun passo falso, almeno fino ad ora. Nessuna negligenza o disobbedienza nei confronti dei suoi superiori. Una sottovalutazione del rischio che comportava mettersi in casa un tipo come il ragioniere? Forse. Ma pure dopo quello che è successo, nessuno si è azzardato a muovergli un appunto. Solo abbracci e pacche sulle spalle per la disgrazia. Nient’altro. Impallomeni, povero cristo. Gli è capitato diverse volte nelle lunghe ore passate nella stessa stanza a lavorare di alzare gli occhi e guardarlo. Un mistero è stato per lui il ragioniere. Alla sua età, dopo una vita passata nel lavoro e nella famiglia, cosa mai lo muoveva in modo così violento verso quelle sue innaturali inclinazioni? In un modo che ne metteva a rischio la onorabilità, la pace familiare? Impallomeni non si è mai aperto, neppure in confessione. Per questo sacramento sceglieva il più anziano dei frati e il meno dotato di misericordia. Ma ad ogni confessione, nonostante il viso acceso e l’aria tirata, il ragioniere ne usciva come fortificato nelle sue decisioni. Ovvio che le voci correvano. Una delle sue figlie era venuta a trovarlo, scongiurandolo di metterci una buona parola, anche, per evitare guai più seri. Don Raffaele non si era negato, provando a prendere il discorso con Impallomeni ma, quello, ogni volta, trovava sempre un argomento per sviare la discussione. Il progetto, sempre di quello parlava, non si stancava mai. Pure questo era un mistero legato, forse, alla vita passata del ragioniere, ma, oramai se l’era portato nella tomba per sempre. Neppure i più anziani dei frati del convento che avevano avuto modo di conoscere Impallomeni da giovane, qualcuno pure da bambino, aveva saputo aiutarlo a capire.

Sentirli, poi, quegli altri! Che ci state a pensare ancora don Raffaele? Non è più cosa che si possa reggere, meglio finirla qua quando ancora c’è tempo! Evitare lo scandalo. Ma ci pensate voi, pignoramenti, sequestri? E quei poveri vecchi che avete sulle spalle? Ne morirebbero senza dubbio!

La fanno facile loro. Cinquecento anni, dico cinquecento, da quanto quel sant’uomo del fondatore ha cominciato la sua opera con l’aiuto di Dio! Conventi sempre troppo piccoli per ospitare i frati e sempre la necessità di costruire nuove case per ospitare i novizi che bussavano alle porte. Cosa rimane ora? Lui, quattro poveri vecchi e un priore rassegnato e impaurito che non vede l’ora di ritirarsi da qualche parte. Questo rimane!

La decisione è presa e non vale la pena perdere tempo. Dire quello che sapeva, tutto qui. E quello che sapeva era ben poco. Impallomeni si occupava solo di una questione, il progetto. Non chiedeva niente in cambio e gli è parso sempre sincero e disinteressato. Don Raffaele lo sa che quell’aiuto è arrivato proprio sull’unica cosa che abbia un certo valore fra quello che è rimasto della fortuna della congregazione. Da questo a pensare….No e perché poi? Cosa ci avrebbe guadagnato Impallomeni? Il terreno è dei frati. I vantaggi economici che se ne potevare ricavare sarebbero andati pure quelli ai frati. I lavori? No, neppure a pensarci. Nessuno fra di loro, Impallomeni compreso, ci avrebbe avuto a che fare. I soldi li avrebbe messi e gestiti la Regione, come previsto dall’ultima modifica al progetto, proposta proprio dal ragioniere.

Sicuramente il commissario le sapeva queste cose. Aveva fatto le sue indagini. Perché non incontrarlo allora? Gli avrebbe detto tutto quello che sapeva. Magari gli avrebbe fatto vedere pure le carte, se proprio ce n’era bisogno. Non c’era niente da nascondere.

Gli piange il cuore doverlo ammettere. Senza Impallomeni non avrebbe potuto starci appresso al progetto e senza il progetto non restava che farla finita per il bene di tutti. Il Signore lo deve perdonare ma sente pure rabbia. Un peccato grave di cui pentirsi per non perdersi. A volte l’attaccamento, pure alle cose più sacre, significa non accettare quello che il Cielo ha deciso per noi. E quello che il Signore decide è sempre per il meglio, anche se questo significa far cessare una tradizione di carità e di eroismo durata cinquecento anni. Il lavoro non sarebbe mancato neppure in quest’occasione. Gli hanno detto di prepararsi, ma ogni volta che li ha dovuti ascoltare, Dio lo perdoni, ha sentito montargli dentro quella rabbia.

Ma se così era scritto così sarebbe stato.


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sabato 6 febbraio 2010

(20) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato





CAPITOLO XX

Dottor Filippo Virgilio

Canziati!

Una vita! trentanni di servizio senza che nessuno avesse mai potuto muovergli un appunto. Certo che non ha bruciato le tappe, come sovente succede di questi tempi, il dottor Filippo Virgilio. Ci ha messo il tempo che ci è voluto, ma dove voleva arrivare, alla fine ci era arrivato. Un buon posto, ben pagato e, soprattutto, senza rogne. Soprattutto questo ha cercato nei lunghi anni di servizio il nostro dottore.

Ciononostante non sarebbe giusto considerare il dottor Virgilio un lavativo ed uno scansafatiche. Al contrario, Filippo è sempre stato disponibile. Se c’era da lavorare non guardava mai l’orologio, tranne, ovviamente, quando non c’entrava la madre inferma. In più è stato disponibile ad ascoltare tutti e a suggerire soluzioni, apprezzato dai capi come dai colleghi. Però, non gli si doveva mai chiedere di firmare qualcosa. Questo no. Se solo ci provavano Virgilio impallidiva, prendeva a star male, ma male veramente, al contrario della madre inferma, direbbe qualche mala lingua. Più di una volta - molti anni addietro - si era dovuti ricorrere alle cure mediche a seguito di tali insensate richieste avanzate da sprovveduti all’oscuro della situazione. Ringraziando il cielo, da tempo, ogni cosa si è sistemata. Virgilio ha continuato a fornire il suo supporto a capi e gregari, riducendo, di fatto, a questo il suo lavoro. E’ stato a capo di vari uffici senza con ciò muovere un dito sulle pratiche di competenza dell’ufficio stesso. Profittando, infine, di una illuminata riforma, alla quale non ha negato il suo illuminato apporto, è riuscito a crearsi l’ufficio perfetto, all’interno del quale ha passato anni felici firmando, sì firmando carte di assoluta inconsistenza.

Tutto passa, ainoi, e principalmente, si esauriscono, prima di ogni altra cosa, le poche occasioni che la vita offre di serenità e di pace.

E’ stata un’imprudenza. Può succedere a tutti. Chi non ne commette? A Virgilio, comunque, bisogna riconoscere ogni attenuante. Nessuno avrebbe lontanamente potuto immaginare che l’incontrare un collega - per di più già in pensione - che gli chiedeva consiglio potesse rivelarsi la causa di un tale disastro. Ha pensato alle solite questioni che tutti i pensionati incontrano con i loro ex colleghi, invidiosi del loro stato di beato far niente.

Certo che l’avrebbe rivisto volentieri, ci mancherebbe per un caro collega come il nostro ragioniere. Senz’altro mercoledì, diciamo a metà mattinata.

Chi me lo doveva dire?

Chi me lo ha fatto fare?

Questa sola ci mancava! Non ci bastava mia madre, no, bisogna accanirsi, bisogna, contro i poveri cristi.

La cattiveria, poi, che gli avevano riservato tutti! Nessuno si era salvato. Gli avevano fatto il deserto attorno. Anzi, le male lingue si erano scatenate! Il livore, il livore di certe persone, di certi amici! Sì belli amici, lo dice sempre sua madre: amici e guardati, Filì! Non te l’ho scordare. Solo la famiglia non ti tradisce mai!

Pareva si trattasse delle solite cose. Chi poteva immaginare che, invece…

E’ stato scorretto però, su questo non c’è dubbio. La buonanima doveva almeno accennargli qualche cosa e non metterlo di fronte al fatto compiuto.

Voleva solo scambiare due parole con lui per una questione che gli stava particolarmente a cuore. Va bene, ma lo doveva avvisare!

Che strano quel coccio. Non è che fosse un esperto, ma a prima vista sembrava proprio autentico. Anche di pregevole fattura. Chissà che splendore l’anfora o il cratere di cui era stato parte. Un ritrovamento importantissimo. Bene, congratulazioni, ragioniere.

Impallomeni è arrivato puntualissimo. Virgilio no, non gli è mai riuscito di essere puntuale. Ha troppe seccature e la badante non arriva mai in orario la mattina.

Sembra solo sciupato, forse pure un poco preoccupato Impallomeni.

Dovevo capire che c’era qualche cosa che non andava anche solo a guardarlo in faccia. Maledetta la fretta. Maledetta la badante che non arriva mai in orario. Ero troppo affannato, troppo. Quello è arrivato subito al dunque. Neppure il tempo di informarsi di come andava la salute, di lamentarsi di come era caduta in basso la Regione. Niente, neppure il tempo di sedersi e subito ti tira fuori da quella cartellaccia vecchia quel coccio maledetto.

Sì, che si è trovato bene in pensione. Non si è mica fermato. Ha continuato a lavorare. Ogni santo giorno. Non per i soldi, no. Non è questo il problema. Certo non sciala, ma per i suoi bisogni la pensione basta e, magari, avanza. Dove? Con chi aveva lavorato dopo la pensione? Ah, Virgilio conosce certamente i frati dell’Incoronazione. Il convento per il ragioniere è sempre stato come una seconda casa. Ci andava da picciriddu a fare il chierichetto. Lì conosce tutti i frati. Che vuole, oramai sono quasi tutti vecchi e il solo don Raffaele non può seguire tutto. Quella questione, si sa, è stata sempre troppo ingarbugliata. Troppi appetiti! Trecento euro, lui neppure li voleva accettare ma il priore ha insistito così tanto.

C’è questa cosa, che ne pensa Virgilio?

Per Impallomeni il coccio è falso.

Non sono un esperto e quindi non posso essere sicuro come te. Però possiamo farlo vedere giù. No, non c’è da preoccuparsi. Un favore si doveva chiedere, mica una perizia giurata. Un’occhiata da chi queste cose le conosce, tutto qui. Ci può contare? certo che ci può contare. Ci mancherebbe per un collega e per il nostro ragionerissimo poi!

Aveva ragione Impallomeni, il reperto è falso. Ben fatto non c’è che dire, ma falso. E’ stato scorretto però Impallomeni. L’avevo aiutato, cosa gli costava parlare chiaro a questo punto? Ma lui no, zitto. Anzi, neppure questo perché gli ha detto delle cose, ma, solo per farlo compromettere sempre di più.

Ah, il custode lo ha portato proprio a lui un mese fa? Sì il custode che di tanto in tanto si fa il giro di quelle quattro pietre che sono rimaste. Ce l’hanno messo apposta per fare bloccare tutto un’altra volta. Per sempre stavolta! Impallomeni è straconvinto. A me non pare il caso di farne una tragedia. Il coccio è fasullo, no? Allora perché deve costituire un problema? Giuro che non lo avevo mai visto così prima. Io cercavo solo di tranquillizzarlo. Lui, invece, si è alterato. Non è che si sia lasciato andare, questo no. Ma, si vedeva che si tratteneva a stento. Si trattava di ragionarci sopra e la cosa sarebbe apparsa chiara come il sole. Vero che il coccio è falso, chiaramente falso, forse, pure troppo falso. Quindi? Beh quindi proprio non capivo dove volesse arrivare. Al fatto che con quel pezzo di vaso volevano tenerli per le palle. L’aveva detto, ce l’avevano messo apposta per bloccare ogni cosa. Il ragioniere si sarebbe aspettato che qualcuno si facesse vivo dopo il ritrovamento. Ma niente, non si era presentato nessuno. Niente di niente. Per questo era così nervoso. Uno che vuole soldi prima o poi si presenta a riscuotere. Uno che vuole farti uno sgarbo o va fino in fondo o sparisce. No, questi erano diversi e lui non lo sapeva cosa volevano.

A tutto c’è rimedio Impallomeni. Stai tranquillo. Il problema qual’è? Che con questa spada di Damocle sulla testa non si riesce più a fare un passo avanti? Proprio ora che le cose si erano messe a posto? A tutto c’è un rimedio, mio caro ragioniere! A tutto lo garantisco io. Allora dobbiamo levarlo di mezzo questo impiccio, una volta e per sempre. Con tanto di timbri e di firme. Sepolto, mi segue?

Qui mi dovevo fermare! Mi conosco e mi dovevo fermare. Dire che ci avrei pensato e che una soluzione l’avremmo trovata. Dopo due o tre telefonate si sarebbe stancato, il ragioniere. Ma no! No, perché ero troppo euforico per la soluzione che mi era venuta in mente per tacere. Senza pensare che Impallomeni era in pensione. Certo, in pensione e qui che è stato commesso l’errore fatale. Troppo comune la situazione per me: un collega che viene a chiedere consiglio che, se vuole, dovrà portare avanti da solo con le sue carte, le sue conoscenze, la sua firma. Impallomeni no, lui non lo poteva più fare. Qui l’errore.

Un sopralluogo, meglio se richiesto per estremo scrupolo dai legittimi proprietari del terreno. Questo ci voleva! Il coccio falso avrebbe cessato di bloccare tutto. Anzi, nessuno avrebbe potuto più usare in seguito una simile arma di ricatto. Quello che di pregevole c’era nell’area era stato rimosso e messo al sicuro. Restavano solo quattro pietre e la memoria ormai quasi scomparsa di quello che una volta vi sorgeva. Con tanto di timbri e firma di pubblici ufficiali ed esperti.

Scemo non c’era, il ragioniere! Stronzo, cornuto e subdolo traditore, questo sì, ma scemo proprio no. Bisogna riconoscerglielo alla buonanima! Se ne è andato tutto contento, lui!


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mercoledì 3 febbraio 2010

(19) Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato



CAPITOLO XIX

Lungo la Via Vittorio Emanuele

Certo che lo so? Non ce n’è stato uno che non ve l’abbia indicato come Corso Vittorio Emanuele. E’ verissimo, qui lo chiamano tutti così, avete ragione. Ritengo doveroso porre rimedio a quest’errore, dato che il ruolo che indegnamente occupo - sottolineo per vostra scelta - mi impone di essere scrupoloso nella toponomastica. Almeno in quella, vorreste dirmi? La battuta non è niente male e neppure tanto infondata, quindi l’incasso volentieri. Però, ora evitiamo di distrarci e torniamo a noi.

La strada stretta e dritta che ci troviamo davanti si chiama Via Vittorio Emanuele II e con questa precisazione il problema è chiuso.

E’ uno degli assi viari più antichi della città ed è stato per secoli la via più importante di Palermo, dove, per intenderci, si affollavano tutti i potenti locali coi loro palazzi pubblici o privati che fossero. Interseca un’altra strada, altrettanto antica e un tempo altrettanto prestigiosa, la Via Maqueda, che già conosciamo, formando una croce che divide la città nei suoi quattro antichi mandamenti. Oggi, nonostante qualche potente di recente fortuna sia tornato ad abitarvi, ristrutturando qua e là, la via dimostra ancora i segni dell’abbandono e del declino di quelli che una volta vi hanno dimorato.

E con questo è tutto, considerato che non è per questo motivo che siamo qui ora.

In effetti, qualcosa mi dice che su questa strada, finalmente, rivedremo il nostro commissario, di cui, da un po’ di tempo, abbiamo perso le tracce.

A fagiolo, è vero come si dice! Che vi avevo detto? Eccolo lì. Proprio a quella fermata dell’autobus, di fronte alla fontana.

Avviciniamoci, forza.

Stamattina non lo che cosa mi è preso. Non mi sperciava per niente alzarmi dal letto. E forse avrei fatto meglio a restare dov’ero, visto quello che è successo dopo. Mi ci dovrei abituare, così mi ha detto il dottore. Non è nulla, solo stress e con queste pastiglie riduciamo drasticamente il disagio. Non lo metto in dubbio. E’ andata proprio come ha detto lui – miracoli della farmacopea! – tutto è tornato in perfetto ordine. Ma, ad essere sinceri fino in fondo, visto che il medico in questione ha scelto, manco a farlo apposta, proprio quel termine così neutro e rassicurante, il disagio non se ne è andato per niente. Del resto, a parziale discolpa del mio fidato medico, neppure io riesco a definire quello che mi succede in altro modo, per quanto non risparmi di certo tempo e sforzi per farlo. Ieri ho anche cercato nel vocabolario e fra gli etimi che ho trovato quello che più si adatta al mio caso mi pare “difficoltà, imbarazzo (G. Della Casa,1526). Si tratta proprio di difficoltà a fare qualsiasi cosa e di imbarazzo di fronte ad eventi e persone. Per esperienza so che è molto meglio non stare a rimuginarci sopra per l’intera giornata. Così sono uscito di casa come tutte le mattine, senza comunque mettermi fretta.

Il disagio va e viene come vuole lui. Un momento fa mi godevo la giornata, contento di avere scelto la strada più lunga per andare in questura e ora devo starmene qui fermo in attesa che passi. E meno male che c’è questa fermata del bus che mi fornisce un alibi per sostare.

Un respiro profondo, due, tre e pensare ad altro. A cosa? Questo è il problema. Al lavoro? Magari è da lì che questo cazzo di disagio si è generato. A che? Al torcicollo che mi ritrovo puntuale ogni mattina, che per sbloccarmi ci vuole almeno mezza giornata? Lasciamo perdere che è meglio.

Maledetta l’abitudine di accenderlo questo stramaledetto telefonino! E’ un riflesso condizionato, che posso farci?

- Sì pronto, chi parla?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Sì commissario, sono il dottore Virgilio, si ricorda di me?

- Come no, dottore, come no. Proprio l’altro giorno ho cercato il suo numero d’ufficio, ma quando sono riuscito a trovarlo, lei era già andato via.

- Spero che non sia sia fatto una cattiva opinione di me, commissario. E’ stato un caso. Martedì, la badante di mia madre è dovuta andare via prima e non ho potuto fare a meno di anticipare l’uscita.

- Ma cosa va a pensare dottore. Mi dica.

- Volevo sapere se per caso potremmo incontrarci, ovviamente, quando lei ha un po’ di tempo da dedicarmi, commissario.

- Certo, le ho già detto che l’ho cercata proprio per questo, mi pare, no? Allora oggi è giovedì, che ne dice se ci vediamo da lei domani mattina, diciamo verso le nove, nove e mezza?

- Domani? Non vorrei sembrarle importuno ma, oggi, non le è possibile? Sa non sono ancora uscito di casa per cui se mi dice dove posso raggiungerla.

- Guardi, io sono in corso Vittorio Emanuele e sto camminando verso la Questura. A che ora può trovarsi alla caffetteria Rizzo. La conosce? E’ quel bar di fronte alla chiesa delle Anime decollate, poco prima dei Quattro Canti.

- Ah sì, certamente. Sarò lì fra mezzora al massimo.

- Va bene, guardi che io ci metterò molto meno di mezzora, quindi entri nel bar. L’aspetto per un caffè.

Almeno la telefonata a qualche cosa è servita. No, non si tratta del lavoro. Anche questa volta il disagio è passato. Mi devo decidere però. Questa storia mica può andare avanti così. Certo tanto al medico che gli costa dire, stia calmo, non si preoccupi, non è niente. Niente questa minchia, niente! Andiamo che è meglio!

Ancora? Cosa gli è preso al telefono stamattina?

- Pronto? Con chi parlo?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Lei non mi conosce commissario. Sono don Raffaele Cimò, l’economo dei frati della Loggia dell’incoronazione.

- Sì padre, piacere. Ho sentito parlare di lei e della sua congregazione per un caso di cui mi sto appunto occupando.

- Esattamente commissario. Esattamente. Sa, ci rendiamo conto dell’importanza del suo lavoro e delle sue esigenze investigative. Per questo, commissario, ci chiedevamo se non fosse il caso di scambiare due parole. Sa la gente ci mette poco a farsi idee sbagliate e abbiamo pensato che fosse, come si dice, più appropriato, ecco, evitarle l’incomodo di venirci a trovare.

- Certo capisco. Stavo per l’appunto pensando se non fosse il caso di chiamarla, ma vede sono stato così occupato in questi ultimi giorni. Ma, se lei mi dice che vuole scambiare due parole. Senz’altro! Vediamo, oggi è giovedì, che ne dice se ci vediamo da me domani mattina, diciamo verso le nove, nove e mezza?

- Domani? In Questura? Non vorrei sembrarle importuno ma oggi non può proprio? magari, visto che mi trovo dalle parti della Cattedrale, potrei raggiungerla dove a lei fa più comodo.

- Non c’è problema don Raffaele, si immagini. Guardi ho giusto un appuntamento fra le nove e mezza e le dieci, ce la fa a raggiungermi alla caffetteria Rizzo?

- Ah quel bar che c’è di fronte alla chiesa delle Anime decollate?

- Proprio quello, può esserci, diciamo fra le dieci e mezza e le le undici?

Ma chi cazzo era che dava a cani e porci il suo numero? Si chiede Cardascio. Non era neppure un cellulare di servizio. Da quando è tornato alla questura non l’ha più voluto tenere. Per cosa poi? Per contattare gli anonimi estensori delle lettere che gli passavano? Ora, però si sta facendo tardi e non è ancora arrivato all’incrocio con Via Roma. Cazzo che casino che c’è stamattina! non si riesce a camminare neppure a piedi e in più manca l’aria. Come fanno quei negozianti a starsene tutto il santo giorno davanti ai loro negozi a respirare questa schifezza? Guai a pensare a misure per ridurlo il traffico. Già il solo parlarne fa crollare le vendite di almeno il 50%. Sempre del 50%, che cosa stramba. Questa con le altre, comunque.

Vabbè, allora non è proprio giornata.

- Pronto? Con chi parlo?

- Commissario, commissario Cardascio?mi sente?

- Sì la sento. Lei mi sente?

- Commissario, sono Franco Martirano, si ricorda?

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